Il coronavirus in carcere. Decessi, rivolte, sovraffollamento, scarcerazioni di boss, bufera ai vertici penitenziari. Serve un nuovo modello di carcere: sicurezza, dignità, reinserimento sociale
(Angelo Perrone) Rivolte e proteste durante i
mesi caldi del Covid-19, scarcerazioni eccellenti di mafiosi e
narcotrafficanti. Poi l’inevitabile scossone al vertice dell’amministrazione
penitenziaria, il ministro Bonafede nomina in gran fretta il nuovo capo del Dap, il magistrato Petralia, insieme al vice Tartaglia, per fronteggiare la
situazione.
Sono i passaggi più drammatici di questa fase di emergenza negli istituti di pena. Nella quale sono apparse evidenti la sottovalutazione dei problemi e l’impreparazione a fronteggiarli. Il coronavirus non poteva risparmiare proprio le carceri, istituzioni chiuse per eccellenza, sovraffollate all’impossibile, più esposte al virus. Così ne ha fatto saltare i fragili equilibri interni, mettendo allo scoperto i problemi irrisolti.
Sono i passaggi più drammatici di questa fase di emergenza negli istituti di pena. Nella quale sono apparse evidenti la sottovalutazione dei problemi e l’impreparazione a fronteggiarli. Il coronavirus non poteva risparmiare proprio le carceri, istituzioni chiuse per eccellenza, sovraffollate all’impossibile, più esposte al virus. Così ne ha fatto saltare i fragili equilibri interni, mettendo allo scoperto i problemi irrisolti.
Era cominciato tutto con l’ammutinamento di alcuni detenuti, da febbraio in
poi, nel pieno dell’epidemia, una protesta
per le condizioni degli istituti, gravate da un sovraffollamento estremo che
rende impossibili le precauzioni necessarie. Sommosse, reparti incendiati, servizi
fuori uso, manifestazioni sui tetti. Nessun allarmismo, il virus ha iniziato a
far vittime tra detenuti e personale. E oltre ai reclusi tanti altri sono
esposti, i 40.000 che lavorano nelle carceri, tra penitenziaria, medici,
volontari. Una risposta debole del ministro della Giustizia Bonafede e della
sua amministrazione, esortazioni a interrompere le proteste, poi si vedrà cosa
fare, con calma. Non saranno mancati scongiuri perché le cose non
peggiorassero. Invece, è accaduto proprio questo.
Arriva l’inevitabile scarcerazione di tanti detenuti.
Un numero enorme, 376, che crea allarme. Hanno situazioni sanitarie gravi, non trattabili in carcere, soggette a
peggiorare per la pandemia. Scoppia la polemica perché non sono detenuti
qualsiasi. Anzi, tra i più pericolosi e irriducibili. Sorveglianza speciali,
casi da 41 bis dell’ordinamento penitenziario, ancora in contatto con le
organizzazioni criminali. Narcotrafficanti, omicidi, mafiosi. Spiccano i nomi
dei boss, dal camorrista Zagaria, allo ‘ndranghetista Iannazzo, ai siciliani Bonura
e Di Piazza. Tutti ora a casa, in famiglia, in detenzione domiciliare, con la
possibilità, come temono i p.m. antimafia, che riprendano, se mai li avevano
interrotti, i contatti con le rispettive gang.
Anche qui, la risposta è
disarmante. Andranno approfonditi i singoli casi per vedere il perché delle
decisioni, chissà che i giudici, sempre loro, non abbiamo commesso errori
marchiani. Poi le ispezioni, gettiamo un’occhiata di persona, ci saranno magari
colpevoli da additare al pubblico ludibrio. Si cerca altrove ciò che è sotto
gli occhi. Non manca la bacchetta magica, la previsione che i giudici chiedano
sempre il parere dei p.m. antimafia, quelli oggi più preoccupati, prima di
qualsiasi decisione. Così non si potrà dire che le situazioni pericolose non
siano state segnalate a dovere. Un agitarsi confuso ed inefficace, come se tutto
non fosse già chiaro, eclatante, soprattutto noto, da tempo.
Quali cose? Per cominciare, l’affollamento. Perenne questione, mai risolta, presentata ogni volta come emergenza,
mentre non lo è. Si tratta di una disfunzione endemica, denunciata più volte
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La disponibilità di posti rispetto
alle esigenze? Sempre insufficiente. Oggi sono 53.000 i reclusi a fronte di una
capienza di 47.000 posti, ma erano 61.000 prima che tutto questo accadesse.
A seguire, c’è la
refrattarietà alla costruzione di nuove carceri, come avviene in ogni paese, secondo una normale
proporzione tra popolazione, flussi criminali, e casi di detenzione Non si
pensa che, tra le infrastrutture necessarie al paese, ci siano anche queste. Si
invoca sicurezza sociale, non si lavora per realizzarne gli strumenti. Ce ne
vogliono in tutte le direzioni certo, ma servono anche in questo campo.
Per continuare, l’eccesso di
criminalizzazione della vita sociale (si è visto anche all’inizio del
coronavirus) a dispetto di sistemi sanzionatori più veloci ed efficaci. E la
mancanza di misure alternative al carcere, basate però su controlli sicuri. Si
indugia nei proclami, nelle vanterie, come quella recente sulla disponibilità di migliaia di braccialetti elettronici per sorvegliare gli arrestati domiciliari. E’
cronica la mancanza ovunque di questi strumenti, che non avrebbero un costo
elevato e che eviterebbero di sprecare il lavoro della polizia in continui
controlli personali, spesso inefficaci.
Infine, la cosa più grave: l’affossamento
della riforma (governo Gentiloni) dell’ordinamento penitenziario, vecchio di 43 anni. Disegnava un altro modello di
carcere, sicuro ma attento ai processi di reinserimento sociale perché è
documentato che la recidiva è inversamente proporzionale al lavoro. Più si
sconta la pena in modo utile, imparando un mestiere, e meno poi si delinque
quando si esce. A parte il fine rieducativo della pena, che pure dovrebbe
essere assorbente, si tratta di un’impostazione utile alla società, che così
con deve fronteggiare la reiterazione del crimine. Che oltre tutto era
concepita in modo assennato, escludendo ogni automatismo. Si ottiene ciò che si
dimostra di meritare, anche con il ripensamento della propria vita precedente.
Questioni mai affrontate
seriamente, pretesti buoni per vie di fuga, o per immancabili propositi di condoni come rimedio dell’ultima ora. Accontentano i delinquenti, tranquillizzano le
coscienze dei benpensanti a corto di idee, liberano spazio nelle carceri,
scongiurano le rivolte, insomma tutto ok. Quanto alla sicurezza da garantire ai
cittadini tutti, sarà per un’altra volta.
Il coronavirus coagula tutti
le questioni in sospeso e provoca uno scossone all’impianto. Così, da ultimo,
cadono le teste. Quella del capo del Dap, Basentini. Protagonista del più
eclatante degli episodi di negligenza e trascuratezza. Che fa da detonatore. Il
suo ufficio più volte non risponde al Tribunale di sorveglianza di Sassari sulle
richieste di provvedere a trovare una nuova sistemazione sanitaria al boss
camorrista Zagaria, lo fa solo a tempo scaduto quando ormai i giudici hanno
deciso l’inevitabile scarcerazione.
La liberazione di Zagaria è di
per sé scandalosa, ancorché inevitabile, ma si ricollega alla mancata predisposizione di attrezzature sanitarie
adeguate a fronte dell’avanzata nel virus. E’ questo il vero nodo sul quale tutto si è aggrovigliato, fino ad far
esplodere la situazione. Una grave sottovalutazione delle difficoltà cui il sistema
sarebbe andato incontro, ampiamente prevedibili. Difficile non vedere le
responsabilità politiche, non solo perché a volere il dimissionato Basentini è
stato sempre il ministro Bonafede che ora ne ha avuto la testa, ma perché
dall’inizio del mandato, nel 2008, la situazione non è cambiata, anzi si è
aggravata. Non basterà cambiare il capo di un dipartimento per trasformare la
vita in cella, e ancor più per restituire alle carceri sicurezza e dignità.
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