Non potrà esserci il ritorno al passato: soluzioni nuove
(Angelo Perrone*) Il tessuto
sociale, dopo il Covid-19, avrà bisogno di essere risanato in profondità e
non basterà il fronteggiamento del virus, comunque lungo. La piccola buona
notizia è che l’emergenza e la fase 2 potrebbero
servirci a fare scelte oculate. Ne saremo capaci? Sconfiggere il virus rimane
prioritario, perché solo il vaccino ci farà dire che siamo davvero fuori, ma
non possiamo sprecare l’opportunità di oggi. Quando finirà la pandemia, saranno
intervenuti cambiamenti troppo radicali per tornare indietro.
Il distanziamento sociale
La regola che governerà la
nostra vita, per un tempo imprevedibile, sarà il distanziamento
sociale. L’unica su cui si possa contare, perché non disponiamo d’altro. Un
enunciato facile da applicare, se non ci fossero mille problemi, come è già
evidente. La misura può essere blanda, complessa, estrema: è sempre complicata.
Facile dire: manteniamo le distanze quando parliamo, lavoriamo, prendiamo i
mezzi pubblici; quando ci muoviamo all’aperto. Anche nel privato, e in casa.
Basta poco per comprendere
quanto sia “costoso” tutto questo. Difficile da realizzare senza investimenti e
trasformazioni. Alternare i posti nei treni o sugli aerei significa aumentare i
mezzi e il numero dei viaggi; far entrare le persone senza assembramenti comporta
lo stravolgimento degli orari di entrata/uscita e di durata del lavoro, quindi modifiche
degli spazi e assunzione di altro personale.
Lo stesso criterio della
distanza può richiedere interventi fisici, non solo organizzativi-normativi. La
creazione di barriere tra le persone, in contrasto con la tendenza naturale
all’avvicinamento fisico. E’ una sorta di risposta “sovranista” al virus, in
contrasto con la logica della democrazia. Separiamo fisicamente gli spazi, dividiamoci,
alziamo muri, stavolta reali non metaforici. Gli ombrelloni dentro capsule di plexigas. Paratie tra tavolini dei bar,
tra cliente e impiegato.
Il digitale e
la dimensione collettiva
L’altra risposta al virus,
oltre la distanza, è il potenziamento
del digitale. Sostitutiva o integrativa della distanza. Il digitale è uno scenario altrettanto
generalizzato. Ipotizzabile in qualsiasi campo, ma irrealizzabile nelle attività
che esigono il contatto diretto. O sconsigliabile per le conseguenze politiche.
In Cina ha dato origine al controllo minuto degli individui, sino
all’annullamento dei diritti più elementari. Efficace ma brutale.
E’ stato inevitabile il
digitale, data l’impossibilità di muoversi, di recarsi in fabbrica, nelle
scuole, in ufficio. Come altro fare se era vietato il contatto diretto con gli
altri? Ma come proseguire su questa strada? Ecco, lo smart working che d’un colpo inverte la retorica del coworking, della condivisione di tutto, dai
mezzi di trasporto alle abitazioni. Oppure le lezioni scolastiche da remoto,
che ugualmente tengono in contatto studenti e insegnanti. Certo non una
soluzione a portata di mano, anzi fonte di accentuazione delle diseguaglianze
sociali.
Basterebbero la connessione
e un computer, ma le famiglie disagiate non l’hanno. Rimangono fuori. Come
affronteranno il futuro? Ancora, i processi a distanza (giudici, pubblico
ministero, difensori in luoghi diversi), espediente per fronteggiare l’emergenza,
potranno avere una possibilità domani? E cosa ne sarà di certe sperimentazioni
audaci, anzi spesso additate al pubblico ludibrio, come le funzioni religiose
in streaming, e le sedute di psicoterapia in chat?
Le novità in materia di
distanze e di digitale vanno oltre l’emergenza, sono un’anticipazione del
futuro. Introducono cambiamenti così forti da prefigurare nuovi modelli di
relazioni umane. Varrà la pena mantenerle? Tutte queste innovazioni non sono necessariamente
peggiori, neanche sicuramente migliori. Questo è il punto. Nella gestione del
presente, sarà importante esplorarle, valutarne portata e incidenza, senza
pregiudizi, ma con senso critico.
Probabilmente non ci sarà
una risposta unica che valga sempre, e si dovrà scegliere caso per caso, magari
vedendole alla prova in tempi meno confusi. Saper mettere da parte le cose inutili,
valorizzare l’essenziale, questo il compito che ci attende. Che differenza c’è tra
il lavoro svolto a distanza e quello a contatto di gomito? Tra la
frequentazione scolastica e le lezioni via chat?
Tra il processo da remoto e quello con la presenza fisica ravvicinata di tutti?
Tra la seduta terapeutica via web e quella “normale”? Sarà importante
affrontare queste questioni anche in situazioni “normali”.
Il ricorso al digitale
scardina il pilastro sul quale sono costruite tante attività umane, si direbbe
il setting, la “cornice” entro cui si
svolgono e che alla fine le caratterizzano: ambienti, orari, appuntamenti, modalità
di comportamento, regole di interazione personale. Non c’è più l’ufficio con le
scrivanie e gli impiegati a scambiarsi informazioni. Ed impressioni. Si fa a
meno dell’aula scolastica, dove gli studenti interagiscono con gli insegnanti. L’udienza
processuale assume una dimensione virtuale, accentua l’aspetto funzionale rispetto
a quello fisico.
Nel mondo digitale, manca la
dimensione collettiva del lavoro, si attenua per la distanza il senso di appartenenza,
difettano le declinazioni del contatto diretto. Non ci sono spostamenti (auto,
bici, metro), incombenze materiali (orari, cartellini di ingresso). Neppure abitudini
e rituali (saluti, caffè in comune, magari chiacchiere) di contorno.
Il contesto
sociale
La domanda cruciale anche
per il futuro sarà: quanto la mancanza di questo contesto incide realmente sul risultato
del lavoro? E quali aspetti collaterali sono ugualmente determinanti? Pensiamo
alla soddisfazione nello svolgimento di un compito, al riconoscimento sociale,
in una parola alla “motivazione” del singolo contributo.
La parola “cornice”, a ben
vedere, ha i suoi limiti. Ce ne rendiamo conto per esempio nello svago, nelle
attività culturali. Non è la stessa cosa fare ginnastica in casa o frequentare
una palestra dove incontrare amici ed appassionati. Ascoltare musica nella stanza
o farsi un tour virtuale in un museo non equivale a recarsi ad un concerto, ad
entrare in un museo e girare per le sale galvanizzati all’idea di trovarsi di
fronte a quel quadro del ‘500. Non sarà facile rinunciare alla “cornice” e diventerà
impraticabile una risposta che valga in tutti i casi.
Di certo, vanno rimosse le
sedimentazioni. Non ce le possiamo permettere in una società che non potrà
tornare alla normalità senza soluzioni nuove. Ci sono tendenze conservatrici
specie nelle attività di lunga tradizione. Resistenze che non permettono di
vedere altro che non sia ciò a cui siamo più abituati. Ecco il valore frenante della
consuetudine, del già visto e conosciuto. Un ostacolo a riconoscere ciò che può
servire ad una maggiore funzionalità nel lavoro e nell’esistenza. Del passato,
manteniamo solo l’irrinunciabile.
Le soluzioni “caso per caso”
Le forme delle attività
sociali vanno valutate per la loro efficacia non meno che per la capacità di
preservare aspetti identitari importanti per il singolo. Non è forse vero che
sino ad ieri nel coworking, simbolo
dell’abbattimento di ogni barriera fisica e psicologica, si è cercato di
attenuare l’aspetto spersonalizzante con arredi e soluzioni di segno contrario?
Così, solo per fare degli esempi,
non potremmo immaginare la Scuola di
Barbiana, creata da don Lorenzo Milani, senza l’incontro personale di
alunni e maestro, assunto a modello di vita oltre che di insegnamento. Del
resto la scuola è sempre formazione e non solo apprendimento, dunque esperienza
che necessita della presenza fisica e del contatto diretto.
Tuttavia, è altrettanto vero
che, nello stesso lavoro scolastico, ci sono momenti di studio assolutamente
individuali (un tema, un testo scritto, la spiegazione di un argomento) che non
richiedono questo rapporto stretto, anzi persino lo sconsigliano, perché
necessitano di isolamento e concentrazione.
Una valutazione priva di
pregiudizi dovrebbe servire anche a superare le rigidità che si sono
manifestate nella giustizia per lo svolgimento dei processi da remoto. Sono state
formulate critiche prive di aderenza alla realtà, e del resto non nuove
(accompagnarono anche l’introduzione di analoga riforma per evitare i costi
legati al trasferimento dei collaboratori di giustizia sottoposti a
protezione).
Ebbene, basterebbe riflettere
che il principio di immediatezza (di cui si è lamentata la violazione) ha un
significato temporale, che è garantito dal digitale. Allude alla relazione tra
un soggetto (gli operatori di giustizia) e un oggetto (le prove che si formano)
e richiede che le attività si svolgano nello stesso tempo (non necessariamente
nel medesimo luogo fisico) con la possibilità di interagire, immediatamente e
in modo completo. Cosa che appunto accade, con l’audio e il video: ogni circostanza
della comunicazione, verbale o meno, è rilevabile integralmente e subito
esaminabile e contestabile.
L’approccio senza pregiudizi
Sono soltanto esempi, in campi tanto importanti come la
scuola e la giustizia,
che riflettono il medesimo problema, la necessità di
un approccio senza sovrastrutture ideologiche. Troppo spesso sono soltanto le
consuetudini ad impedire di sperimentare strade più efficaci, valutando in modo
concreto gli effettivi risultati.
L’emergenza ci ha costretti
a ripensare le forme tradizionali di lavoro, e persino gli stili di vita. Il
ritorno alla normalità non potrà non tenerne conto, anzi ci impone d’essere
aperti ad ogni soluzione, se fattibile e meritevole. Occorre però saper
lasciare da parte il vecchio che ha ormai perso valore e riuscire a dare spazio
al nuovo più efficace.
E’ stato fin troppo abusato
lo slogan: nulla sarà come prima. Dobbiamo interrogarci: quale sarà allora? O
meglio: come vogliamo che sia? La nuova normalità non sarà possibile senza
scelte sapienti. Dovremo essere capaci di abbandonare la zavorra che frena il
cammino, e portare nel futuro solo il meglio del passato.
* Leggi La Voce di New York:
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