Il dramma personale di Silvia Romano interpella tutti sul rapporto tra vittima e aguzzini: i valori di libertà e dignità che fondano la società
(Angelo Perrone) Ci sono segreti che non emergono
mai. O lo fanno con difficoltà, e dopo un lungo percorso. Indicibili,
misteriosi. Per questo sfuggono alla mente e al cuore. Rimangono dentro, da
qualche parte. Senza trovare una via di uscita, una strada che li sveli, ne
mostri il fondamento o la mistificazione. E accade che ciascuno se li porti
dietro, perché in ogni caso c’è bisogno di tempo, forse di fortuna. Per fare
chiarezza, prima di decidere il futuro.
Così a Silvia
Romano potrebbe succedere di rimanere, ancora una volta, da sola. Con il
suo tremendo segreto. Senza esserne consapevole, senza fingere. Giustamente vuole
essere lasciata in pace, perché, in quella atroce prigione somala, ha vissuto
una solitudine che era troppo affollata per riuscire a pensare.
E’ il nucleo irriducibile del dramma
di questa ragazza, mandata allo sbaraglio in una terra pericolosa da
un’organizzazione improvvisata, inseguendo il sogno fragile – giovane donna
appena affacciatasi alla vita - di aiutare i bambini di un orfanatrofio.
Il resto, non c’è bisogno di dirlo,
è fango: la violenza contro di lei - «te la sei cercata»; «così sfrontata e
ingenua, te la sei meritata» - che ha indotto
ciarlatani del web e della politica a stigmatizzarla, infetta di islamismo
terroristico. A ben vedere, è la persona che va difesa dagli attacchi volgari,
più che il suo segreto.
Questo dovere, che è un diritto di
Silvia, delimita lo spazio tra lei e noi. E’ un confine, separa gli ambiti: da
un lato Silvia con le sue scelte, dall’altro gli interrogativi che riguardano
la nostra coscienza. Come tale, esige che ciascuno stia nel suo, non consente
di invadere campi altrui, ma proprio per questo, interpella senza tregua la
nostra intelligenza.
Accanto agli insulti, non sono
mancate voci di altro segno; il rispetto è dovuto non solo verso la persona di
Silvia, ma in una direzione ben diversa. Ha esortato infatti Umberto Galimberti
a «non violare quel segreto che ciascuno di noi custodisce nel profondo della
propria anima, quale è appunto la nostra dimensione religiosa». Come se riflettere
sulle implicazioni della tragedia rappresentasse una violazione dell’intimità
altrui. Lo è solo dove è rispettata la libertà e dignità delle persone. Non
negli altri casi, quando l’anima è straziata, la sofferenza altera le
percezioni, manca l’autodeterminazione.
Il dramma di Silvia non concerne
solo lei, ma ognuno, perché investe il quadro dei valori irrinunciabili per
tutti. Il rapporto tra libertà e violenza. Gli effetti devastanti della
sofferenza morale sulla psiche. L’esposizione traumatica alla violenza. Non
possiamo sentirci estranei a queste dinamiche, ci riguardano da vicino. Il
dramma di Silvia è quello di ogni altra vittima di soprusi, in Africa o dove
che sia, vicino a noi, nelle nostre case. Chiunque sia oppresso, violentato,
maltrattato, privato dei suoi diritti.
Guardiamo a lei, Silvia, con la
stessa considerazione che proviamo verso chiunque soffra per qualcosa di
ingiusto. Per questo ne parliamo. E continuiamo a farlo. E’ il campo della
nostra umanità. Così fragile e così nobile. Che ha il dovere d’essere voce.
Non è un’invasione di campo: qui è spontaneo
rivolgere a Silvia un augurio, qualunque cosa voglia fare della sua vita. Che
scenda davvero dalle scale dell’aereo. Che riesca finalmente a tornare tra noi.
Finora non l’ha fatto. Non perché si è “convertita” all’Islam. O perché non ha
visto l’affetto che, circondandola, si è adoperato per la sua salvezza. Piuttosto,
per qualcosa di diverso. La sua mente è rimasta altrove. Nel buio di quella
prigione.
nessuno ha il diritto di investigare nella sfera intima e privata altrui, musulmana, buddista, induista , genuina o imposta che sia la sua conversione,secondo me, non e' e non deve essere oggetto di discussione;
RispondiEliminadetto questo oggi ricorre ben altro anniversario, quello di una tragedia, vera.