Con il Covid-19 mancano i braccianti agricoli, immigrati e italiani. Regolarizzare il lavoro nero salva l’economia. Il pianto del ministro Bellanova e i diritti del lavoro
(ap) Quando parliamo di lui, possiamo chiamarlo Sikh,
per comodità. Così, a dire il vero, suona pure strano e persino esotico. La
parola ci appare tanto gradevole quanto lontana, come se non ci riguardasse. Sensazione
giustificata. Di quel tale, non sappiamo nulla. Però vive molto vicino. E’ uno
che lavora la terra, raccoglie pomodori, mette la frutta nelle cassette. Uno
dei tanti che faticano nei campi perché i prodotti arrivino nei negozi per la nostra
spesa.
Il suo nome può essere anche Youssef, Mihail, Driss, Mousse, Nazmie,
Mehmed, Selije, o chissà come. Sarebbe la stessa cosa, tanto è difficile che corrispondano
ad un’identità certa. Chissà come si chiamano davvero e da dove vengono.
Poi ci sono anche nomi più
familiari, e abbiamo Rosario, Emma, Nadia, Rosa, Manuela. Guarda caso, in
questo gruppo, più spesso donne, che uomini. Costoro i documenti li hanno, e
sappiamo che si chiamano così, e da dove vengono, abbiamo nome, cognome: sono
italiani. Ma tutto ciò non basta a cambiarne destino. Che è analogo a quello
degli altri.
Un elemento in comune. E’ l’essere
senza volto, sconosciuti, privi di diritti. Quando lavorano, quando vivono. Nei
campi, nelle bidonville senza luce e acqua. Costretti a svendere la loro fatica
per campare, non c’è alternativa. Sottoposti ai ricatti dei caporali. Sono
tutti coloro che vivono nel degrado. Sfruttati. Per pochi soldi. Non contano la nazionalità, il colore della pelle, la
lingua, lo status rispetto all’ordinamento.
Sono ombre in una società che
si proclama civile, e che rivendica – a torto? – d’essere fondata sulla legge. Già,
dov’è la legge, con i suoi diritti e doveri, mentre tutti costoro vagano nelle
nostre campagne con la speranza di sbarcare il lunario?
Ora, con il coronavirus,
hanno preso a far notizia. E la politica, non tutta s’intende, sarebbe troppa
grazia, ne parla. C’è un’emergenza anche nel lavoro agricolo dove mancano
almeno 300.000 lavoratori. Il
ministro Bellanova invoca: «Regolarizziamo gli immigrati che hanno un lavoro e sconfiggiamo il caporalato». Salveremmo intanto la
nostra tavola. Conti alla mano, sarebbe utile anche a far riprendere
l’economia. Costoro producono comunque reddito. Ma è scontro sulla proposta. E’
tutta una scusa, in realtà. «Una
sanatoria inaccettabile» (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia). Volendo, basterebbero dei voucher per pagare questi
braccianti. Meglio ancora soldi per acquistare nuove macchine agricole. Così ce
ne potremmo anche liberare una volta per tutte.
Si scopre che i campi
marciscono senza di loro, ne abbiamo bisogno e come, per la nostra
sopravvivenza. Prima era lo stesso ma fingevamo che non lo fossero perché il
loro lavoro non mancava. Doveri sì, comportatevi bene, non sgarrate, niente
reati, non fate confusione, ma i diritti, la paga giusta, la tutela della
salute, queste cose lasciamole stare. Perché di fronte alla crisi allora non
regolarizzare i clandestini che lavorano nelle campagne, perché non dare tutele
ai tanti, non importa se stranieri o italiani, che vivono di lavoro nero? Perché
non si riesce a contrastare lo sfruttamento da parte del caporalato?
Dovremo ripartire prima o
poi. Certo non basterà perorar aiuti in Europa o dove altro: siamo noi a
doverci tirare su le maniche, ci aspettano tempi grigi. E allora come faremo,
senza di loro, scomparsi per la paura dell’infezione, un timore più forte del bisogno?
Sono rientrati nei paesi d’origine in attesa di eventi. Si sono rifugiati
presso parenti e amici, quando hanno una casa da qualche parte.
Quanto a noi, passi per la
reclusione in casa, la tolleriamo per senso del dovere, ma soffriamo per tutte le
libertà compresse e non sappiamo come faremo a riprenderci. Serviranno lena e
un grosso sforzo. Ci rimane poco al momento, per non cadere in depressione: le
piccole abitudini che possiamo coltivare a casa, magari la buona usanza del
cibo preparato con le nostre mani. Alla maniera delle mamme e nonne.
Non scherziamo dunque, ci
sono i bisogni primari da soddisfare, e deve
essere salvaguardata la catena alimentare, così la
chiamiamo con una bella espressione. Evoca la partecipazione solidale di tanti,
spinti da uno scopo comune, ma in concreto si risolve nella soddisfazione del
destinatario finale. In soldoni, dobbiamo pur nutrirci in clausura.
Per il resto, cioè tutto
quello che è accessorio rispetto alla nostra condizione, e che implicherebbe di
assumerci delle responsabilità sociali, possiamo ben dire: si vedrà. Con calma.
Abbiamo molte perplessità: non sarà che così si legalizza pure il crimine? Si
sa come vanno a finire le cose dettate dal buonismo sconsiderato. Dunque, anche
se l’idea fa fino, forse non ne faremo nulla. Non si scherza con i diritti.
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