di Marina
Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia
(ap) La pioggia è il tema ricorrente di questi racconti che sanno
scavare nel profondo, toccando qui, al maschile, il tema doloroso della
separazione, e del ruolo, a metà e a tempo, di genitore. Di fronte alla crisi,
il dialogo nella coppia non serve sempre. Non più, quando la vita è tutta
sfilacciata, ed è troppo tardi per parlare, per intendersi, per ricucire la
storia, per una svolta decisiva magari. E allora, in chi rimane senza più
nulla, subentra, a parte lo sconforto, quel brivido improvviso di freddo, come
sotto una gran pioggia; quella sensazione di esclusione dalle cose care. Non
solo rispetto a chi, come la moglie, si è amata e ora è terribilmente distante,
rivolta altrove, ma persino verso chi si ama ancora e sempre, più di ogni altra
cosa al mondo, un figlio.
Giulia ha un
anno. Soffia su una candelina, c’è una festicciola, la casa piena di gente.
Siamo felici. Giulia ha due anni. Mia moglie Emma ha dimenticato una cosa, dei
pasticcini per la festa, questo l’ha
messa di malumore per tutta la serata. Alla fine abbiamo fatto una foto della
piccola che soffia su due candeline, le luci spente, lei illuminata. E’ di una
bellezza unica, la mia piccola.
Siamo al terzo
compleanno, la sera prima Emma ed io abbiamo litigato, litighiamo spesso
ultimamente, ogni cosa ci fa scattare i nervi. Passiamo ore a parlare, a
discutere, e sento che più che discutiamo più ci allontaniamo, non è vero che
il dialogo aiuta, almeno nel nostro caso. Siamo sempre più tesi. Comunque,
Giulia ha soffiato su tre candeline, e le occhiate di mia suocera e di mia
cognata mi sono sembrate strane, chissà cosa ha raccontato loro mia moglie.
Giulia cresce,
ha già quattro di anni, e sembra che capisca tutto. Anche che suo padre e sua
madre non vanno più d’accordo. E’ sempre più bella, la mia piccola, la mia
principessa di serate solo per noi, quando leggiamo un libro, entriamo in un
castello, saliamo su una stella e da lì
guardiamo il mondo, quello che io le racconto, quello che io le spiego
del mondo.
Ha un lampo di
tristezza ogni tanto, la mia piccola. Lo so cos’è. Ci ha sentiti più volte bisticciare, usare
toni sarcastici e aggressivi fra di noi. Mi dà un fastidio tremendo
questo. Emma sembra un’altra da qualche
anno, dopo la nascita della bambina ha perso la dolcezza che aveva, la cosa
magica che mi faceva sentire l’uomo più fortunato del mondo: una moglie che mi
ama e una bambina che è come il sole, illumina tutto, la casa, le mie giornate
al lavoro, ogni mio pensiero. La mia piccola. Che ogni tanto diventa triste.
Cinque anni. E’
accaduto l’inferno. Ci ho messo un bel po’ per capire, perché mia moglie mica è
stata chiara subito… Mi parlava da tempo di stanchezza, di fatica nel fare le cose, di entusiasmi che se n’erano
andati, quello l’avevo capito anch’io, lo senti quando la tua compagna è
lontana, con la mente. Lo diventa anche con il corpo, ti passa vicino e sembra
abbia paura di sfiorarti, come fossi un estraneo.
E’ accaduto
l’inferno perché lei mi ha lasciato. “Va avanti da un po’, mi dispiace”. Questo
mi ha detto una sera. Va avanti da un po’.
Non ho grandi
problemi economici, non sono ancora stato toccato dalla crisi. Mio padre aveva
un appartamento di proprietà, piccolo ma dignitoso. Ho fatto le valigie una
sera, dopo che Giulia dormiva. Non volevo che vedesse, non avrei sopportato lo strazio. La casa a
mia moglie, giustamente, ci sta con la bambina, l’ha detto il giudice. Quindi
deve essere così.
Ho trentaquattro
anni, e tutti dicono che dovrei rifarmi una vita. Trovare una nuova donna,
magari avere altri figli, e poi, il resto, farmene una ragione. La piccola sta
con la madre, la vedo ogni tanto, secondo quanto stabilito dal giudice. Vado a
casa sua, la prendo e la porto nel mio appartamento.
E’ un’assurdità
abituarsi a certe cose. Non si può fare finta che sia normale, questo. Non si
può parlare di una bambina come di un pacco che si prende e si riporta, in
orari prestabiliti. Sono cose assurde.
Contro il buon senso. Ma è la legge. Quello che sembra più giusto, per
un padre separato.
Non mi rassegno.
Le mie serate sono vuote, sembra anche che si sia spezzata la magia che c’era
fra di noi: io e la mia piccola, i nostri voli con la fantasia, io che le
rimbocco le coperte, che le leggo una favola, che parlo con la sua bambola e
lei ride. So sempre meno del suo mondo. Anche perché ora, a casa mia, vive un
altro, Enrico si chiama. E’ lui, quello con cui andava avanti da un po’, chissà
da quanto c’era nella vita di mia moglie.
Emma mi ha
pregato di non fare scenate, di essere responsabile, di capire cosa è meglio
per nostra figlia: in fondo lui diventa “un’altra figura paterna”, dice.
No. Quello sta
prendendo il mio posto, e io lo so. Non ci dormo più la notte. Giulia ne parla
spesso ormai, come fosse uno zio, l’amico di mamma, magari presto si sbaglierà
e lo chiamerà papà. E io? A parte gli alimenti, la casa che ho dovuto lasciare
a mia moglie, io sono quello dei week-end, delle vacanze programmate da mesi,
quello che si trova quasi in imbarazzo di fronte a sua figlia, perché lei parla
di sua madre e di un uomo sempre presente, “Anche Enrico l’ha detto…”, “Me l’ha
regalato Enrico…”
E’ tardi, guardo
l’orologio, devo chiudere l’ufficio e correre in quel negozio dove ho visto la
bambola che piace a Giulia. E’ il suo compleanno, stasera, ed è maledettamente
tardi.
Alessandro
camminava a passi svelti, guardava l’orologio, mancava solo mezz’ora alla
chiusura del negozio. Milano di sera, con la gente che correva, i tram pieni,
l’aria pungente che si conficcava nella pelle e il senso di solitudine: tante
sere erano così, ma quella sera sarebbe stata diversa. Era il compleanno di
Giulia, e lui si sarebbe presentato con la bambola dai capelli rossi che lei
aveva indicato nella vetrina, un giorno: “Papà, guarda, è bellissima, me la
compri?”
Lui aveva detto
“Vedremo”, ma già sorrideva all’idea di regalargliela per il suo compleanno.
Sarebbe stata una bella sorpresa. Una cosa del suo papà.
Ma le cose si
mettono male, quello che sembra scontato non accade. La bambola, quella della
vetrina dai capelli rossi, era stata venduta. Il negoziante, rammaricato
all’apparenza, disse che l’aveva venduta poche ore prima. Che beffa.
E allora… C’era
un altro negozio di giocattoli non molto lontano, e se faceva una bella
camminata forse ce l’avrebbe fatta,
poteva arrivare in tempo, prima che chiudessero…
Camminò, camminò
a passo veloce. Nei piedi c’era una forza antica, l’amore sconfinato di quando
aveva preso Giulia fra le braccia, di quando lei aveva accarezzato il suo
volto, con le sue manine di pochi centimetri, c’era la complicità di un tempo,
le parole che erano solo le loro, gli sguardi misteriosi che si passavano,
anche alle spalle della mamma…
La bambola, la
bambola con i capelli rossi… Ce l’avete, vero?
Ecco, era lì, il
desiderio di Giulia che si avverava, incartato con una carta dorata come d’oro
sembrano i sogni che si avverano. Uscì dal negozio, sollevato. Guardò
l’orologio. Doveva andare da lei, andare alla sua festa.
Emma aveva
organizzato una piccola festicciola in casa,
con amici della piccola e qualche parente. Ma a lui non interessava
niente questo, voleva vedere Giulia, darle il regalo.
La piccola era
presa da tante persone. C’era confusione in casa. Andò incontro a lui, si
appartarono in una stanza, e lei aprì il regalo.
“Grazie papà! E’
bellissima!” ed Alessandro l’abbracciò forte. “Auguri, piccola.”
Pochi istanti
dopo la bambina era già tornata dai suoi amichetti, c’erano cabaret di
pasticcini, tartine salate, bibite. Alessandro entrò in cucina. C’era Emma e il
suo nuovo compagno. Lo aveva già incontrato, Enrico. Bisognava essere
responsabili, essere gentili, esserlo anche con chi gli aveva portato via la
moglie.
“Abbiamo organizzato
una cosa semplice…” accennò Emma.
“Siediti, dai…
Prendi da bere… C’è ancora qualche bottiglia, o hanno finito tutto?” disse
Enrico.
“No, c’è
qualcosa… Comunque, dentro, nell’armadietto, ce ne sono altre di bibite…”
rispose la donna.
Alessandro notava
lo sguardo d’intesa, perfetto fra di loro, come fossero marito e moglie che
accolgono un ospite.
“Siediti, ti
prendo un bicchiere” disse Enrico.
Ti prendo un
bicchiere. Un mio bicchiere, da quella cucina che ho scelto con Emma, un
giorno, un giorno di tanti anni fa, e anche questa tovaglia che avete sulla
tavola la scegliemmo insieme, e anche quel frigo, si era rotto l’altro… andammo
un pomeriggio, io e lei …
“Prendi anche un
pasticcino, qualcosa da mangiare…” continuò Enrico.
Alessandro fece
cenno di no con la testa.
Stava calando un
silenzio imbarazzante. Emma era a testa bassa, lui non parlava, solo Enrico si
stava impegnando per fare gli onori di casa. Che cosa assurda, fare gli onori
nella sua casa, poi…
“Papà, guarda
cosa mi ha regalato Enrico! E’ bellissima!”
Giulia era
entrata in cucina con una bambola fra le mani, la stringeva forte, come fosse
sua figlia. C’era in quel trasporto una piccola madre, la protezione verso la
bambola che diventava calore, e quel calore riguardava anche Enrico. La bambola
di Enrico che le piaceva più della sua, la cullava, la stringeva, e invece la
sua bambola dai capelli rossi… lasciata di là, da qualche parte… in mezzo a
tanti regali…
Il senso di gelo
lo colse. Era un senso di freddo che penetrava nelle ossa, come se ci fosse
stata una finestra aperta, in casa. Ma tutte le finestre erano chiuse.
Suonò
all’improvviso il campanello. Era una lontana parente di Emma.
“Comincia a
piovere e si è alzato un vento…” disse la donna apparendo in cucina.
Si fece l’ora
della torta, la piccola soffiò su sei candeline. Mani che battono felici.
Giulia che dà un bacio alla mamma, poi ad Enrico. Basta.
E allora
Alessandro si allontanò, senza salutare nessuno, sentiva la pioggia che
scendeva sui suoi capelli, mentre entrava in macchina, mentre entrava in una
macchina buia e ogni cosa era buia e fredda e oscura e gli veniva da piangere
ma non doveva, perché gli uomini non dovevano piangere, devi farti un’altra
vita, gli avevano detto in tanti.
In casa lo
cercarono.
“Neanche per la
torta si è fermato…” fu il commento della madre di Emma.
“lo sai com’è
fatto” fu la risposta della figlia.
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