A Forte dei Marmi, l’apparizione di
una donna misteriosa: un incontro tanto intenso quanto breve, prima di
scomparire per sempre
di Paolo Brondi
In quel giorno
piovoso e freddo, la luce nero-grigiastra del cielo s’insinuava tra le carte e
i libri in cui il dr. Belli era immerso, nella consueta ricerca, rendendo clima
e ambiente finemente crepuscolare. Mentre era assorto nella raccolta degli
elementi più probanti, il telefono prese a squillare con prepotenza:
«Sono io… non mi riconosci?
Ti penso sempre e ascolto ogni giorno la musica che ti piaceva tanto.»
Giulio non
ricordava quella voce, né sapeva quale musica fosse quella citata fra tutte
quelle che amava, ma, scaltrito da analoghe situazioni, cercò subito strategie
per recuperare la memoria mancata.
«Oh, ciao… anch’io non ho mai smesso di pensare a te… e vorrei
rivederti e risentire insieme quella musica… Dove sei, da dove chiami?»
«Non sono lontana… potremmo incontrarci oggi stesso, alle 17 al nostro
caffè!»
«Quale caffè? Dove vado? Come posso raggiungerla», pensava il dr. Belli, con
crescente imbarazzo, ma anche con ingenua curiosità.
«Ma, se non sei lontana, potresti venire qui, nel mio studio? Ora sono
le 16.30, devo finire un lavoro che forse ti interessa, poi andremo al nostro
caffè.»
«Va bene, aspettami amore.»
Quest’ultima
espressione “amore”, Giulio non se l’aspettava proprio.
Erano
passati mesi e forse un anno che non si sentiva oggetto di un tal sentimento e nemmeno
ne soffriva la mancanza, da quando Sara, sua moglie, lo aveva lasciato per
seguire la sua vocazione di missionaria in Africa o, forse, per l’affetto verso
il medico con cui da tempo aveva collaborato per gli aiuti umanitari e le
adozioni a distanza.
Si erano
scambiati i saluti, e il distacco era iniziato proprio nel giorno del suo
compleanno: il prof. Toni, il 3 giugno del 1998 raggiungeva i 50 anni!
Da allora,
erano passati tre anni, scorrevoli, senza grande tormento, occupato com’era in
tante funzioni: docente, ricercatore, conferenziere, presidente di Fondazioni
culturali, ma soprattutto pago del suo monolocale, acquistato, con i proventi
dei suoi numerosi libri e congrui risparmi, nel centro di Forte dei Marmi .
Il silenzio
di Forte dei Marmi, nei mesi che vanno da settembre a maggio, lo affascinava,
consentendogli, dopo il gran rumore della stagione estiva, di ascoltare il
linguaggio del mare, le campane della chiesa vicina, e di andare per strada
riuscendo a parlare e ad ascoltare gli amici incontrati.
Un universo
di comunicazione si riapriva in quei mesi, quando il silenzio ridava fiato alle
voci di sempre.
Una pace e
un ristoro dell’animo interrotti in quel pomeriggio da una curiosità ansiosa
che, più volte, lo portò alla finestra, in attesa della donna che lo aveva
chiamato “amore”.
Al suono
del campanello aspettò almeno un minuto prima di rispondere e di aprire: non
sapeva perché. Forse era uno scherzo, forse lo avevano scambiato per un altro.
Il campanello tornò a suonare.
Aprì
lentamente la porta e i suoi occhi rimasero affascinati dalla figura che gli si
presentò: il viso, i capelli, il corpo, il sorriso, assai somiglianti a quelli
dell’attrice da lui più ammirata: Meg Ryan.
«Giulio!» esclamò,
con voce intensamente emotiva, e lo abbracciò con impetuosa passione.
Giulio,
stranito, non si sottrasse all’abbraccio, anzi, si abbandonò all’entusiasmo
così fortunosamente capitatogli, scoprendosi desideroso di baciarla e di essere
baciato, senza capire il perché.
Non sapeva
nemmeno il suo nome, ma lo scoprì quando lei si ritirò per rinfrescarsi: trovò
in borsetta il suo passaporto: aveva 33 anni, nata a Cortona, vissuta a lungo
in Germania e si chiamava Elena Conte.
Frugò nella
sua memoria: aveva conosciuto tante persone con il cognome Conte, alcune donne
con il nome Elena, sempre viste con il sapore e l’incanto dell’Elena classica.
Tuttavia, l’abbinamento Elena Conte non riusciva a farlo uscire da nessuna
sinapsi del suo cervello.
Lei uscì dal
bagno rosea e solare, e sedutasi accanto a lui sul soffice divano, gli prese
dolcemente la mano, la accarezzò, la rigirò e con estrema delicatezza delle
dita seguì le linee del palmo. Fuori, la pioggia cessava e un bel sole tornava
a brillare sul mare.
«Vedi, questa è la linea della vita, una lunga vita, la tua, e questi
segni a forma di X indicano le esperienze cruciali da te vissute. Vedi qui,
questa X grande corrisponde al momento della tua vita, quando ci siamo
incontrati, ricordi? A Siena, al Caffè Nannini: tu entrasti con la tua
sicurezza, compiaciuto del successo riscosso con la conferenza nell’Aula Magna
dell’Università, sulla cultura Incas, sull’arte e la psicologia di quel popolo.
E io, piccola studentessa, trepidavo per ottenere un tuo sguardo; poi mi
venisti vicino, forse ti eri già accorto di me in aula; mi chiedesti se mi era
piaciuto l’argomento, mi offristi una tazza di cioccolata.
Era freddo fuori e già l’autunno incalzava. Poi uscimmo, andammo a
passeggiare in Piazza del Campo: un gruppo di studenti suonava musica country,
e ci siamo seduti non lontano da loro. Quanto abbiamo parlato! Non solo di
storia, ma di noi, della vita, della felicità sempre ricercata e raramente
vissuta. E da lì cominciarono i nostri giorni d’amore, in quella deliziosa
stanzetta: si vedeva la cattedrale di Santa Caterina, si gustava il tramonto
sui colli senesi. Una settimana insieme: un mare di felicità per me, un
sentimento crescente in te che non avevi nemmeno quarant’anni e dicevi di esser
rinato».
Giulio ascoltava
quell’affabulante memoria con espressione di tenerezza, di coinvolgimento, ma
con l’interno mormorio della sua coscienza che non conosceva niente di quello
che Elena raccontava: «Sì, sono stato
a Siena, all’Università - pensava - forse 12 o 13 anni fa. Ho fatto ricerche
sugli Incas, ho tenuto quella conferenza, ma non so, non ricordo niente della
settimana d’amore con questa donna!».
Elena, si
rannicchiò fra le sue braccia: le gambe raccolte sul divano, il dorso
appoggiato sulle sue gambe, seno e viso rivolti verso di lui e braccia che lo
tenevano stretto dietro la nuca. La posizione era tale che anche il prof. Toni
fu costretto ad abbracciarla, sentendo un desiderio crescente di andare oltre
quella provvisoria intimità.
Ma quando
lei riprese a raccontare del loro amore vissuto, l’inquietudine della coscienza
prese il sopravvento.
«Ti ricordi, -
narrava, mentre uno sprazzo di sereno squarciava le nubi piovose verso
occidente, facendo intravedere rossastri barbagli di sole - quel giorno che mi portasti a Bolgheri? Mi
ero seduta sul prato e tu mi dicevi “come sei bella Elena quando ti tocchi i
capelli, quando poggi il capo sulla mano e ti lasci baciare dal sole; come sei
dolce e bella, Elena mia! I tuoi occhi
mi mandano messaggi, continui messaggi… io li ricevo e li scaldo sul mio cuore…
Il prof.
Toni, stupito per quel che sentiva e di cui niente conosceva, era comunque
affascinato dalle immagini, e dal sapere che quella bellissima creatura,
abbandonata tra le sue braccia, gli dipanava davanti.
«Strano - pensava - Elena sta richiamando luoghi che certamente io ho
frequentato tante volte con mia moglie, per studio, per conferenze, per
turismo, ma mai con lei. E mi sta dimostrando una sensibilità poetica di
straordinaria finezza.»
Decise di
creare un disincanto per giungere a una verità altrimenti sfuggente. Le disse: «Elena, forse è il momento di uscire, non ti
ho offerto niente, non hai voluto niente. Non hai fame. Vieni - e
dolcemente l’aiutò ad alzarsi -
andiamo a mangiare fuori.»
Elena,
tutta sorridente, lo prese a braccetto, mentre si avviarono verso il ristorante
da lui scelto. Silvio, il gestore, di età non lontana da quella del prof. Toni,
ma alla vista più vecchio, per una folta barba che nascondeva gran parte delle
linee delle volto e i cespugliosi capelli bianchi, non nascose la sua sorpresa,
guardando con una strana luce la bella signora che, non inconsapevole di
quell’attenzione, gli rivolse un dolce sorriso. Gli stessi camerieri,
nell’avvicendarsi a versare il vino o nel portar vivande, mentre sorridevano
con malizia a lui, restavano ammaliati dal fascino di lei, e si attardavano più
del dovuto al loro tavolo, pieni di gentilezza e di appassionata premura.
La cena
riuscì felicemente, non condita da ricordi lontani, ma da un quieto e condiviso
gradimento del risotto di mare, del branzino ai ferri con verdure gratinate,
del sorbetto al limone, del dessert creativamente elaborato, e servito
direttamente da Silvio con graziosità di gesti e parole colme di complimenti
verso il roseo colore del viso di Elena:
«Che bel colorito, signora, vuol dire che la cena le è piaciuta. Sa,
l’ho curata da cima a fondo io stesso, per farle omaggio e portare via un buon
ricordo di noi, per farla tornare tra noi. »
Elena
accettava i complimenti, rispondendo solo con cenni affermativi e un sorriso
che strappava a tutti il desiderio di baciarla, di accarezzarla.
Il prof.
Toni ora la osservava più intensamente: scrutava ogni sua espressione per
cogliere un indice, un segnale di quello che stava accadendo. Cominciava a
pensare a un imbroglio, a un terribile scherzo, come quelli in uso a certi
scoop televisivi. Oppure - immaginava - è
lei che sta sognando. La sorte che sto vivendo non è la mia. È un altro che
Elena sta ricordando, confondendolo con la mia persona. Eppure, le coincidenze,
l’indirizzo di casa, i luoghi raccontati! Troppe variabili, incomprensibili,
inconciliabili con un banale scoop.
Sul finir
della cena, le chiese come fosse arrivata a Forte dei Marmi:
«Sei venuta in macchina, o in autobus, da dove?»
Elena si
limitò a rispondere di essere arrivata a Forte dei Marmi in macchina con amici
che avevano poi proseguito verso Milano.
«Elena, questa notte sei sola e senza un tuo mezzo. Vuoi che ti prenoti
una stanza in albergo? Sai, ho tanti amici e non ho problemi a trovarti subito
un’ottima sistemazione! »
«Giulio, vuoi liberarti di me, ora che ti ho ritrovato, vuoi ancora
lasciarmi sola?»
Al prof.
Toni, con quell’ “ancora”, parve di essere chiuso in un gioco di una
complessità esistenziale ove il puro possibile o l’intrigante paradosso
sembrano aspramente lottare per conquistare la loro certezza.
Tuttavia,
l’ “ancora” di Elena , così sospirata, appariva l’eco di una struggente
delusione sofferta: per colpa di chi? Il prof. Toni non lo sapeva e ora, dopo
una cena così piacevole e un vino che gli aveva messo dentro un intenso calore,
non gliene importava granché. Sentiva di dover impersonare un “lui” misterioso
e le disse: «Non temere, non ti
lascio, hai occhi come luci di speranza, sono speranza i tuoi occhi, per te,
per me. Andiamo a casa! »
A casa, entrambi dimentichi delle parole, si
baciarono teneramente, appassionatamente, e il letto del prof. Toni mai come in
quella notte conobbe l’estasi di un amore apparso come un arcobaleno estivo e
dilagante, per forme bramanti carezze in ogni parte del corpo, per labbra
incalzanti la turgidità delle curve infiammate, per il viso di lei splendente. Mai
come allora fu alcova di sconvolgenti ore d’amore, di una continua ricerca di
fusione dei corpi frementi e invocanti un piacere alto, amoroso, profondo.
Poi, venne
il sonno: Elena non tardò ad addormentarsi. Il prof. Toni tardò un poco, non si
stancava di guardarla, mentre la luna, occhieggiante oltre una nuvola,
rischiarava la stanza. Si smarriva nell’incanto del suo viso e nell’amore che
sembrava spandersi come un dono prezioso dal suo quieto sospiro e sul suo seno
si addormentò.
Lo destò lo
scampanio della messa delle 10. Allungò la mano per risentire il contatto con
la creatura che un sonno lungo e sogni beati come quelli vissuti in quella
notte gli aveva donato, ma annaspò nel vuoto.
«Elena chiamò. Elena dove sei?». Nessuna
risposta, nessuna traccia di lei. Non si sgomentò subito. «Sarà uscita, forse, per andare a messa»
- si disse con chiara speranza.
Tuttavia,
quando le ore passarono e lei non riapparve, allora lo sconforto lo prese.
Cercò disperatamente un segno, uno scritto, una giustificazione di quello che
via via che le ore passavano, non gli appariva altro che una fuga. Non gli importava
più di non sapere chi fosse, da dove fosse venuta. Sentiva di amarla, di
desiderarla, di volerla sempre con sé.
Scese le
scale sperando di vederla apparire. Giunto in portineria, vide spuntare dalla
cassetta delle lettere una busta. L’afferrò con trepidazione e vi trovò una
lettera:
Giulio,
Giulio mio, ti amo.
Inorridisco
all’idea di lasciarti così, con il pensiero che è finita, che ti ho preso in
giro, che l’idea della stranezza della situazione si risolvesse in modo balordo
come era iniziata ma il nostro esistere, nelle ore che abbiamo vissuto, conserva
il suo mistero, il suo fascino, la sua realtà che nessun ripensamento oscuro o
senso di colpa o paranoia riuscirà a sminuire. È così che io voglio e anche tu
devi volerlo, che rimanga una parentesi, sì, bellissima, rinfrancante,
rinnovante, che si può aprire e chiudere come una scrittura algebrica, e che
racchiude in sé una potenza d’amore che nemmeno troverebbe in eros e agapè la
traduzione del mio complesso amore per te.
Ti ho
cercato e conosciuto in un momento particolare del mio bisogno di affetto, di
comprensione, di condivisione di interessi, di musicalità, di rarefazione e, tuttavia,
non avrei saputo riconoscerti come il mio Giulio se la sintonia si fosse
limitata allo sguardo, alla discussione dotta, alla confluenza di interessi e
letture, alle preferenze spirituali e culturali. Era necessario far seguire
alle parole, tanto care e sempre dentro risentite, il segno di un gesto, i baci
che ci siamo dati, i corpi ritrovati.
Ma ora è
meglio far posto al silenzio perché, alimentandolo di parole, l’amore che è
rinato finirà con il soffocarci e col fare più male a me che a te, visto che io
non ho tutte le riserve che hai tu. Tu sei celebre, uno storico affermato, un
docente amato e cercato da tutti.
Io vivo
sempre l’ambivalenza fra l’attesa e la realizzazione, stretta sempre nella
morsa del sentimento di crisi, di inconsistenza, di fallimento. Vivo così se
non penso a te. Tu sei sempre stato un pensiero dolcemente ricorrente, una
preoccupazione meravigliosamente involontaria. Vivo così se non mi sveglio con
i tuoi occhi, se smetto di aver voglia di pensarti, se non guardo con ironia il
mondo che è intorno, avendo in me un mondo diverso, un mondo intero che mi ama, poiché tu mi
ami.
Ciao,
non soffrire, perdonami. Ti amo, ti amo amore mio…
Il racconto, molto intrigante, s'impernia su un una figura misteriosa che si sarebbe portati a vedere come prodotto di un inganno dell'immaginazione o della memoria se non fosse per quella lettera conclusiva che la colloca inoppugnabilmente nella dimensione del reale, rendendola in tal modo ancor più misteriosa.
RispondiEliminaFrancesco Gozzi
Ritrovo con gioia intensa ,nel narrare, alcuni tratti a me cari di quando anche io scrivevo.
RispondiEliminaInfatti l' ambientazione e' crepuscolare e suggestiva, come piace a me, i personaggi delicati e misteriosi, affascinanti nello svolgersi del racconto e l' atmosfera carica di aspettative. Lo stile e' scorrevole, modulato, attraente nello snodarsi della storia. Coinvolgente la trama, con un pizzico di inquietudine, sempre sul filo tra l' ignoto e il conosciuto, tra l' amore consapevole, lo scherzo, l' inganno o chissa' che!
Elena ( Elena, nome non casuale...Elena di Troia...Elena Muti...)ha tutte le caratteristiche di una ragazza superficiale, forse ingannevole...ma, pure, dell' amante fedele e ingannata...la donna come figura di riscatto rispetto ad una una moglie che ha tradito.
Racconto da 10 e lode per lo svolgimento discorsivo e coinvolgente, tanto da leggerlo in una manciata di secondi.
Cristina Podestà