Guardando il film “Wilde” (1997) con Oscar Boom, gli affetti che portano sofferenza
di
Marina Zinzani
C’è
un momento nel film “Wilde” in cui il protagonista esce dal carcere e consegna
ad un amico una lettera. Dice che viene dal fondo dell’abisso.
Quella
lettera, divenuta famosa come il “De profundis” è per molti l’opera più bella
scritta da Oscar Wilde, la più vera, certamente la più sofferta.
“La
sofferenza, al contrario del piacere, non porta maschere”: il pensiero dello
scrittore sembra scritto su quelle pagine sfrondando ogni cosa inutile,
apparente, effimera, velata.
Il
dolore non porta maschere e in quel momento della vita di Oscar Wilde il dolore
appariva in ogni sua forma, il perdere la propria identità sociale, la propria
famiglia, gli amici, il giovane Bosie che amava e che tanta parte ha avuto
nella sua tragica caduta, la salute diventata da allora instabile.
Se
il dolore non ha maschere, fa anche intravedere il baratro, l’orrore. Sembra di
doversi calare in un pozzo buio, con acqua torbida che appare. O forse no,
sotto, in quel pozzo, l’acqua è più limpida, e diventa specchio.
Allora
si pensa a qualcosa: alle cadute e a chi ci rimane vicino, a chi è presente nel
momento del bisogno, a chi si erge fuori dal coro anche per dire una parola
giusta, che in quel momento è giusta e aiuta. Si intravede allora l’essenza
delle cose, dolorose, ma anche si coglie la preziosità di ciò che conta.
Allora
si risale su dal pozzo e ogni cosa può apparirci diversa, un albero è diverso
da come l’abbiamo visto prima, un fiore diventa dono alla vista, un passero
saltella vicino e ci fa sorridere.
Non
bisogna dimenticare quel viaggio nel pozzo, il nostro “De profundis”. Il nostro
profondo, l’abisso. Per poter cogliere meglio la luce del sole.
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