I difficili perché della sofferenza umana, tra
fede e poesia
di Paolo
Brondi
Di fronte al dolore non ci si accontenta di
spiegazioni razionali, o morali e neppure teologiche: tutte sono inadeguate e
finiscono per scoppiare tra le mani. Un problema assai difficoltoso è quello
del mettere la straziante sofferenza umana in relazione con l'agire di Dio, o
la sua assenza con la presenza del male nel mondo.
Già lo insegnava Epicuro con le parole "Se Dio
vuole togliere il male e non può, è allora impotente e quindi non è il vero
Dio. Se può e non vuole, allora è a noi ostile. Se vuole e può, come dovrebbe
essere proprio di un Dio, perché allora esiste il male e non viene eliminati da
lui?”.
Il dilemma attraversa intatto i secoli: l'ammissione dell'esistenza
e dell’attività di Dio nella natura e nella storia porta inevitabilmente a
ritenerlo ostile e nemico degli uomini specie quando si apre il capitolo della
sofferenza innocente.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, nel romanzo I Fratelli Karamàzov, fa dire al fratello Ivan "Se tutti
devono soffrire, per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c’entrano
i bambini? E’ del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire
anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l'armonia con la
sofferenza".
Ne La peste,
di Albert Camus, forte si leva la voce del medico Riex, mentre la peste dilaga
per la città di Orano e muoiono molti bambini: "Non potrò mai credere in
un Dio finché vedrò un bambino morire così”.
Ogni dramma, ogni lacerante dolore sembra escludere di
vivere e professare una religione serena se non ci si lasci convincere, oltre
che dalla fede, dalle parole del poeta "Sii benedetto mio Dio, che dai la
sofferenza come divino rimedio delle nostre impurità" (Charles Baudelaire, Fleurs du mal, 1857). Giova credere che
la sofferenza sia la grande pedagogia di Dio?
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