Hegel: la valorizzazione dell’idea di Stato
non è l’anticamera del sistema autoritario
di
Paolo Brondi
Troppi
interpreti, secondo la forza e l’affidabilità delle rispettive ideologie, hanno
elevato Hegel ora a filosofo della restaurazione, ora a filosofo della
rivoluzione. Simili immagini di un Hegel spostato a destra o tutto cacciato a sinistra
sono equivoche, generalizzanti e generiche. Si tratta di deformazioni ideologizzate
e politicizzate quelle che fanno di Hegel il teorico o ideologo dello Stato
borghese.
In
realtà, la concezione dello Stato borghese, sostenuta dal liberalismo classico
in poi, s’identifica nell’idea dello Stato minimo, cioè uno Stato che dovrebbe
intervenire sempre meno nel meccanismo della società civile, all’insegna del “laisser
faire, laisser passer”. Al contrario per l’Hegel dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817) e, in
particolare, dei Lineamenti di filosofia
del diritto (1821), lo Stato deve essere valorizzarlo al massimo, fino a
divenire protagonista della storia universale.
Quest’intensa
sublimazione dello Stato ha fatto di Hegel un avversario durissimo di ogni
organismo politico debole, disorganizzato, disgregato, abbandonato all’arbitrio
delle opposte rivalità dei singoli e dei gruppi. Parrebbe che l’accanimento con
cui egli combatte ogni spettro di anarchia per sostenere con forza l’unità e l’ordine
dello stato lo renda precursore di uno stato autoritario o fascista.
E’
vero invece che la razionalità dello Stato s’identifica per Hegel nella
supremazia della legge e non nella torbida prepotenza di chi si è impadronito
del potere, spesso con modi illiberali e antidemocratici. Egli credeva che
l’obiettivo fondamentale debba essere quello di riunire gli sparsi frammenti in
una totalità organica, appunto l’unità dello Stato contro tutti gli spettri
della crisi e della decadenza che, purtroppo, ancora oggi, a centottantasei
anni dalla sua scomparsa, dentro e fuori i confini dell’Europa, e in questa
nostra Italia, non cessano di manifestarsi.
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