Passa ai contenuti principali

Philip Roth, scrittore realistico e visionario

Perché scrivere? (Einaudi, 2018) raccoglie saggi, interviste, riflessioni dello scrittore americano contemporaneo più stimato e premiato. Un’originale lettura di sé da parte dello stesso autore: Philip Roth è scrittore insieme realistico e visionario

(ap *) Difficile mettersi davvero a nudo, per uno scrittore, ma ci si può provare. Quando si tratta poi di Philip Roth, il più noto e premiato scrittore americano (anche se non ha vinto il Nobel), il compito sembra immane se non fosse che proprio lui ha dato un contributo prezioso con Perché scrivere?, una raccolta di testi scritti tra il 1960 e il 2013, ora uscita in Italia con Einaudi (2018), dopo la pubblicazione negli Stati Uniti, l’anno precedente, con l’analogo titolo Why write?
Lo stesso Roth chiarisce nella prefazione di volersi presentare qui “spogliato delle maschere” del narratore, senza “le invenzioni, i travestimenti del romanzo”, un mondo certo artificioso rispetto alla realtà e distante in qualche modo da essa, ma anche straordinariamente concreto che gli consentì di dare spazio alla sua “libertà nell’immaginazione”.
Il libro comprende saggi, conversazioni ed altri scritti, selezionati dallo stesso autore. Discorsi pronunciati in varie ricorrenze, interviste rilasciate a giornali, riflessioni sul lavoro dello scrittore, dialoghi (meglio “chiacchiere di bottega” come lui stesso le ha definite) con colleghi, come Primo Levi, Milan Kundera, Edna O’Brien. In pratica una sorta di filo di Arianna della sua scrittura nel corso di tutta la vita di narratore, una produzione fluviale iniziata nel 1958 con Goodbye Columbus e conclusasi nel 2010 con Nemesi.
La risposta conclusiva di Roth alla domanda cruciale sulla ragion d’essere della scrittura? In un’intervista del 2017, in occasione dell’uscita in America del libro, fu insieme lapidaria e dissacrante: “Il meglio che posso dire è che volevo vedere se ne ero capace”.
La copertina reca una foto non datata di Roth: in bianco e nero, le sopracciglia cespugliose, la mano destra sollevata sul viso con l’indice e il medio aperti a sorreggerlo, o rimarcarlo. La suggestione di uno sguardo curioso e intrigante, pungente e inquietante. Un’immagine profonda dello scrittore, a introduzione dei brani che mostrano un Philip Roth lettore di se stesso, oltre che degli altri scrittori, impegnato a rivelare i segreti più intimi della sua linfa narrativa.
In un brano del discorso intitolato La spietata intimità della narrativa, pronunciato per i suoi 80 anni al Newark Museum, rassicurava il pubblico spiegando che non avrebbe abusato della sua pazienza raccontando per l’ennesima volta l’aneddoto del cestino della sua bicicletta (in cui, da ragazzo, riponeva i libri presi in prestito dalla biblioteca comunale posta a pochi metri da casa sua), ma spiegava anche come “il cestino di una bicicletta” avesse rappresentato “una parte non insignificante della sua vocazione”.
Questo perché lui, non diversamente da quanto faceva ogni altro romanziere americano dai tempi di Herman Melville con la sua balena o di Mark Twain con il suo fiume, aveva sottoscritto uno sorta di patto all’inizio dell’avventura di scrittore: rovistare in continuazione nella propria memoria alla ricerca di migliaia di cose come quella, il cestino della bicicletta.
In altri termini, la linfa vitale della narrativa sta nella concentrazione sui particolari, nella fedeltà alla valanga di dati specifici. Non un esercizio di pedante pignoleria, ma “il fervente interesse per la natura singolare delle cose”. In una parola, “l’avversione per le generalizzazioni”.
La vita è composta di tutto questo, ha una sua fisicità da cui non è possibile prescindere. Il romanzo si basa inevitabilmente su una rappresentazione vigorosa delle cose e non esiste senza una descrizione verbale adeguata. Anzi, è propria questa passione per la specificità delle cose – in sostanza una visione realistica – che rende ipnotico il materiale umano. Il romanzo è necessariamente realistico perché descrive una moltitudine di realtà differenti, coglie nella minuzia l’umanità, ne mostra le caratteristiche più peculiari.
Potrebbe sembrare assurda questa passione, una sorta di rapimento, per le inezie, gli oggetti banali, i luoghi particolari, le situazioni che accadono una volta sola nella vita. Ma proprio il realismo così spinto si mostra nello stesso tempo tanto vivido ed evocativo. Lo scrupolo, fuori di ogni banalità, è al servizio dell’immaginazione più sofistica ed ardita.
Il libro inizia con un saggio su uno degli scrittori più amati da Roth, Franz Kafka, di cui si immagina che non muoia nel 1942 ma sopravviva a se stesso, esule dal regime nazista nel New Jersey. Premessa dell’incontro – immaginato – tra il redidivo Kafka, sessantenne, insegnante in una scuola ebraica, e lo stesso Roth, 9 anni. 
Nella supposizione di Roth, il sopravvissuto Kafka non lascia alcun libro, realizzando il suo intento giovanile di bruciare tutte le sue opere sottraendole al nazismo, mentre quello vero, morto in precedenza, li ha lasciati invece, ma solo perché un suo amico, tale Max Brod, non ha rispettato le sue volontà, e così abbiamo potuto leggere, negli anni a venire, opere come Il processo e Il castello.
Non solo un’allucinazione nella ricostruzione del percorso di vita e letterario di Kafka con una divaricazione tra realtà e immaginazione, e la narrazione di eventi alternativi a quelli reali, e nemmeno un semplice paradosso nel contrasto tra volontà di un uomo e lasciti intellettuali a beneficio dell’umanità. Piuttosto, il saggio chiarisce l’ascendenza dell’opera di Franz Kafka sulla stessa letteratura di Roth e costituisce una sorta di invito a leggerne le opere oltre il richiamo al realismo, in quel terreno misterioso dove si confondono il grottesco e l’assurdo, il paradosso e la visione.
Una proiezione in avanti, quella suggerita da Roth, sempre suffragata ed anzi giustificata da un’incrollabile fede nella concretezza dei riferimenti. Ad oltre sei mesi dalla morte si può leggere Philip Roth come scrittore nello stesso tempo realistico e visionario, autore di tele narrative che riescono ad individuare nei più minuti particolari la luce che di colpo fa cogliere l’essenza dei personaggi e la verità della loro situazione esistenziale.


* Leggi anche La Voce di New York:
Perché scrivere? E chi potrebbe spiegarcelo meglio di Philip Roth?
È da poco uscita in Italia "Perché scrivere?", raccolta di testi scritti tra il 1960 e il 2013 dal più noto e premiato scrittore americano Philip Roth

Commenti

Post popolari in questo blog

Il braccio della morte e l'amore tossico: storie parallele di redenzione

(Introduzione a Daniela Barone). La pena capitale interroga la morale di ogni società, ponendo domande cruciali sulla sacralità della vita e sul valore della riabilitazione. Ma cosa succede quando il "braccio della morte" si manifesta anche fuori dalle sbarre, negli affetti tossici e nel controllo psicologico? Questa è la storia intensa dell'epistolario tra Daniela Barone e Richie Rossi, un carcerato americano in attesa della sentenza capitale, che intreccia la riflessione sulla pena di morte con una personale battaglia per la libertà. Un racconto toccante sulla dignità, la speranza e la redenzione. Segue:  a.p.  COMMENTO. 1. Rifiuto etico e sacralità della vita (Daniela Barone - TESTIMONIANZA) ▪️ Non so se fu il film “ Dead Man Walking ” o il libro “ La mia vita nel braccio della morte ” di Richie Rossi a farmi riflettere sul tema della pena capitale; tendo a pensare che le vicende del carcerato americano abbiano determinato il mio rifiuto di una pratica che ritengo crud...

📱 Dipendenza da notifiche e paura di restare fuori: perdersi qualcosa è una gioia

(Introduzione ad a.p.). L’iperconnessione asseconda il bisogno di controllo sulle cose e alimenta l’illusione che tutto, sentimenti e informazioni utili, sia davvero a portata di mano. Ma genera ansia e dipendenza. Questo ciclo vizioso è alimentato dalla chimica del nostro stesso cervello. Perché non pensare ad una "disconnessione felice" scoprendo il gusto di una maggiore libertà e della gioia di perdersi qualcosa?

⛵ In balia delle onde, trovare rotta ed equilibrio nel mare della vita

(a.p. – Introduzione a Cristina Podestà) ▪️ La vita è uno “stare in barca”, dipende da noi trovare la rotta e l’equilibrio. E un po’ di serenità: come quando galleggiavamo in un’altra acqua. Nel ventre materno (Cristina Podestà - TESTO) ▪️La metafora del mare e della barca è piuttosto diffusa nella letteratura, a cominciare da Dante in tutte e tre le cantiche e relativamente a variegate sfumature dell'essere: Caronte, l'angelo nocchiero, il secondo canto del Paradiso; non sono che esempi di una molteplice trattazione del tema del mare e della navigazione. Joseph Conrad dice una frase molto suggestiva, che riprende proprio la similitudine della vita: "La nave dormiva, il mare si stendeva lontano, immenso e caliginoso, come l'immagine della vita, con la superficie scintillante e le profondità senza luce". Spesso è proprio cosi: la superficie è bella, solare, scintillante appunto ma, se si va sotto e si guarda bene, c'è il buio più profondo! La barca di Dante...

⏳ Natale e la tirannia del presente: riscoprire l’attesa

(Introduzione ad a.p.). Abbiamo perso il senso del tempo, limitato al presente precario e fugace: occorre riscoprire il valore dell’attesa e della speranza, che hanno un significato religioso ma anche profondamente laico. L’iperconnessione e la continua ricerca di stimoli ci hanno reso schiavi di una visione frammentata, incapace di guardare oltre l'orizzonte immediato. Il Natale, con la sua simbologia, ci offre un antidoto a questa tirannia. • La corruzione del tempo (a.p.) ▪️ Quanti di noi, ogni momento, sono intenti a guardare il proprio cellulare? Immersi nella connessione perenne, con tutti e tutto, e dunque con niente? C’è l’ingordigia di cogliere qualsiasi aspetto della vita corrente, nell’illusione di viverla più intensamente che in ogni altro modo. Un’abbuffata di notizie, video, contatti con chiunque, senza sensi di colpa per questo sperdimento continuo del nostro esistere. Questo è il sintomo di una società dominata dalla "paura di restare fuori" e dalla ricerc...

🎵 Baby Gang e responsabilità: quando sceglievamo l’ultimo LP di Battiato

(Introduzione a Maria Cristina Capitoni). Di fronte agli episodi di cronaca che vedono protagonisti i giovani e le cosiddette "baby gang", la tendenza comune è cercare colpevoli esterni: la scuola, la famiglia, la noia. Ma è davvero solo una questione di mancati insegnamenti? In questo commento, l'autrice ci riporta alla realtà cruda degli anni '80, dimostrando che anche in contesti difficili, tra degrado e tentazioni, esiste sempre uno spazio sacro e inviolabile: quello della scelta individuale. Le inclinazioni dei giovani: gli insegnanti e le scelte dei ragazzi (Maria Cristina Capitoni) ▪️ La criminalità tra i giovani? Ovvero baby gang? Non è solo un problema di insegnamenti. Non c'è bisogno che un professore ti insegni che dar fuoco ad un barbone, massacrare di botte un tuo coetaneo non è cosa buona e giusta. Spesso poi questi "ragazzi" provengono da situazioni agiate, tanto che dichiarano di aver agito per noia. La mia giovinezza, erano gli anni ‘8...