Un boato e nulla fu più come prima
di Paolo
Brondi
Il professor Luca Giorgi era molto amato
dai suoi quindici studenti. In quell’aula di università pisana si respirava il
sapere con gioia. Il programma verteva su “Nietzsche, potere e giustizia” e le
parole del professore destavano echi profondi.
“Negli anni vissuti da Nietzsche – egli
spiegava, ormai al termine delle due ore di lezione mattutina – profonda era
l’accelerazione del processo storico, ma ancor più lo è nei nostri anni, non facilmente
dominabile e anzi fonte di disagio, di incertezze, di contrasti: tremende
contraddizioni richiedono di spianare la strada verso lo smascheramento delle
cattive maschere della morale, della religione, della politica, della
tecnocrazia.
“Professore, non crede che smascherare le
varie contraddizioni – chiese un’intelligente allieva – non comporti, in ogni
caso, di fare i conti con le stesse imperfezioni del nostro tempo e chi ci può
garantire di non smarrirci o invischiarci in esse?”
“E’ vero, il rischio è grande, – rispose
il professore – ma occorre ricordare la strada, indicata da Nietzsche, della
scienza, o della ragione, il cui linguaggio e la cui logica sono comunque più
vicine al gioco che alla necessità.
E’ una dottrina di salute quella che Nietzsche
propone, rivolgendola agli spiriti liberi e capaci di superare ogni pessimismo,
il pessimismo dei rinunciatari, dei falliti, dei vinti. Ed è lezione che oggi
vale anche per voi: voi che durate più fatica, in un tempo divorato dalle varie
ossessioni della modernità”.
Il suono della campanella di fine
lezione, interruppe l’enfasi delle ultime frasi del professor Giorgi e smorzò
l’applauso che di consueto veniva spontaneo da parte di tutti gli allievi. Il
professore ringraziò e, salutato ognuno con vigorosa stretta di mano, evitò che
continuassero a fargli domande scendendo le scale e rapidamente si allontanò.
Era venerdì e non avrebbe avuto più lezione
fino al martedì successivo. Raggiunse la sua auto, posteggiata nel cortile
dell’Università e si avviò verso l’autostrada. Dopo una sosta all’autogrill di
Firenze, arrivò a Padova. Superando agevolmente il traffico della città,
rispettò puntualmente l’appuntamento: avrebbe dovuto trovarsi in Prato della
Valle, all’Hotel “Al Giardinetto” e così fece. Lo attendevano due persone di
età pari a quella del professore, cinquantotto anni; l’uno, impiegato alle
poste, proveniente da Milano, l’altro, ristoratore, giunto da Bologna.
Appena riunitisi, si salutarono con
grande affetto e, gustato un aperitivo e una frugale cenetta, si appartarono
nella camera già prenotata dal professore. Era una camera con salottino, un
tavolo rotondo, una poltrona a tre posti, due poltroncine. Il professor Giorgi prese
posto sulla poltrona, i compagni sulle due poltroncine.
Senza preamboli, affrontarono le
questioni sorte nei due mesi precedenti. “Ora è giunto il tempo – cosi iniziò
il prof. Giorgi – per valutare la questione delle colpe e delle responsabilità.
Gli effetti della sentenza di condanna dei nostri compagni ricadono su tutti
noi. Siamo considerati uomini scellerati, fanatici e irresponsabili. Si ritiene
che la nostra colpa sia derivata dalla presunzione, vana e delirante, di
mutare, con le armi del terrore e della morte, la realtà del paese. Forse noi
che siamo stati gli ideologi e i primi promotori della lotta al sistema ci
siamo fatti prendere la mano”.
Alfio, il ristoratore, si alzò e si
avvicinò alla finestra. “Se non avessero animato la nostra mano, se quelle
stragi non ci avessero spezzato la vita, nessuno avrebbe patito le nostre
scelleratezze. E poi, perchè meravigliarci di quei risvolti della lotta che
intanto sono stati utili a far cassa, sapete bene di quanto ne abbiamo bisogno
e non solo per noi”.
E cosi dicendo, piangeva in silenzio, mentre
là fuori i colori azzurro-dorati dell’imbrunire accarezzavano le cupole ed
esaltavano il cotto antico di S. Giustina.
Nicola, l’impiegato, aggiunse: “Colpe,
responsabilità, dove cercarle se non nel nostro passato di dolore e di immane
tragedia!? E chi è il responsabile se non il sistema che deve essere quindi
combattuto, cambiato, vinto, con qualunque forma e mezzo”.
Intervenne il prof. Giorgi confermando le
parole di Nicola e, nel contempo, cercando di consolare la tristezza di Alfio:
“E vero, i terroristi non siamo noi, ma quelli che impersonano l’egoistica
distribuzione della potenza, incentrata nelle mani dei politici, dell’economia,
del capitalismo degli affari, delle borse, degli apparati militari. Cosi, in
ogni dove s’addensa la moltitudine di chi soffre. E il dolore non rende
migliori, scava in profondo. Il tuo dolore, Alfio, il nostro dolore, brucia
come rami secchi di un ulivo centenario”.
In quel momento il telefono della camera
squillò e il prof. Giorgi andò a rispondere. Era l’addetto della reception che
segnalava una comunicazione interurbana: “Luca, sono Alberto, Alberto Rossi,
mi avevi dato tu questo numero, tempo fa, ricordi? In questi giorni sono
tornato a Lucca ed ho saputo tante cose. E finita, Luca!, siete stati scoperti:
so da amici che la Procura di Lucca ha avviato un’indagine e voi siete i
principali indagati”.
Il prof. Giorgi, molto turbato, cercò
conforto nei suoi due compagni. Nicola era alla finestra ma Alfio non era più
nella stanza! Ed era scomparsa pure la grande borsa che aveva con sè. I due si
ripetevano, con ansia crescente, che Alfio quella sera era apparso strano fin
dall’inizio e si domandavano, dove mai fosse andato. In quel momento un grosso
boato, un secondo, un terzo, fece tremare fortemente tutta la stanza e andarono
in frantumi i vetri delle finestre.
Nicola, guardò fuori e si mise le mani
nei capelli: “Dio, Dio mio, non ci posso credere: tre statue del recinto
esterno di Prato della Valle non ci sono più, rovinate in un cumulo di
macerie!” L’ordine e la quiete di alcuni minuti prima non c’erano più: al loro
posto l’ululato delle sirene della polizia, dei vigili urbani, dei vigili del
fuoco e voci fitte e convulse della gente uscita impaurita dalle case, dai bar,
dall’Hotel “al Giardinetto”.
E là, non lontano dalle statue cadute, un
morto! Alfio, il ristoratore, al colmo del dolore e della disperazione, aveva
installato i suoi ordigni distruttivi ai piedi di ciascuna statua e non era
stato così veloce, o non lo aveva voluto, per fuggire tanto lontano, dopo
averli innescati e sincronizzati con timer, da evitare che una scheggia di
pietra, affilata come una spada, lo raggiungesse trafiggendogli il petto e il
cuore. Lo trovarono disteso sul prato, quasi sorridente e con gli occhi aperti,
rivolti alla luna.
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