La danza, di H. Matisse |
di
Marina Zinzani
(Introduzione di Angelo Perrone)
(ap) Racconti dedicati alle
emozioni. Quello stato d’animo così precario e sfuggente, che dura un attimo e
poi svanisce. Non è come i sentimenti: costruiti nel tempo e nello spazio, con
radici ben salde, difficili da scalzare. I segni di quell’evanescenza appaiono
all’improvviso, possono anche durare più di quanto si immagini, ma non è
sicuro, più probabile è che se ne smarrisca persino il ricordo.
Avvertiamo d’istinto quella strana
sensazione di sentirci a nostro agio, con una persona, con un ambiente. Non
sappiano perché. Non possiamo dirne subito il motivo. Eppure l’impressione è di
sentirci a casa. Compresi, accolti.
Ci dilunghiamo a parlare di noi,
delle intemperie che hanno attraversato la nostra vita, e non serve nemmeno
esserne stimolati. Lo facciamo spontaneamente, proiettandoci in una dimensione
che ci sembra familiare e calorosa. Incontriamo occhi che ci rallegrano,
interessati al nostro racconto. Sguardi curiosi, che forse riflettono il nostro
stesso interesse per loro. Chissà che non si veda negli altri ciò che amiamo di
più di noi stessi, qualcosa di segreto e mai confessato pubblicamente.
Oppure ci appare una strana sintonia
con certi luoghi, non solo quelli ben conosciuti, dove abbiamo trascorso gli
anni migliori della giovinezza, quelli in cui è nata la passione per qualcosa,
per un lavoro, un qualsiasi interesse. Persino quelli mai visti, di luoghi,
solo appena visitati, e subito dimostratisi sorprendenti: capaci di provocare
ripercussioni misteriose.
Echi di un’altra vita, forse, di
conoscenze sopite, di attese lungamente coltivate, e improvvisamente riemerse
alla coscienza. Come quelle parole che l’altro pronuncia, togliendoci una
strana sensazione di gelo e di disperazione, restituendoci invece, con una
diversa immagine di noi stessi, anche un pizzico di speranza nuova. Che ci fa
andare avanti, a passo molto più spedito.
Dopo “Sabrina”, dedicato all’invidia, Ilaria sulla rabbia, Rosa incentrato sulla malinconia, Giacomo sul senso di colpa, Maurizio, ispirato al “rimpianto”, Alessia sul rimuginare, Alessandro
sulla paura, ecco l’empatia.
Sempre
si guarda al passato, è invalidante a volte, i ricordi arrivano, la felicità
svanita (ma sapevamo di essere felici, in quel momento?), la fatica, i giorni
da dimenticare, da ricordare, i regali sotto l’albero, il caffè-latte della
mattina e la mamma in cucina, la neve e il pupazzo di neve: ecco si presenta
così la memoria, qualcosa che dice che ci sei stato.
Mio
padre ha l’Alzheimer. E’ cominciata piano piano la malattia, una cosa che lui non
capiva e la dovevo ripetere, si dimenticava di averla ascoltata due minuti
prima. E poi ogni giorno peggio, una lenta amnesia, fatta di chiazze scure
sulla memoria.
Vive
con me, mio padre. Vive con mia moglie e i miei due figli. Abbiamo assunto
anche una badante perché io e mia moglie lavoriamo e mio padre non è più
autonomo, può lasciare un fornello acceso, può andarsene fuori, per strada, e
non sapere tornare a casa. E’ una faccenda penosa, purtroppo comune. E chissà
da cosa deriva.
Ho
letto anche dell’alluminio, potrebbe essere una causa. Magari una caffettiera di alluminio usata
tutta la vita che rilascia particelle che poi, in età avanzata, spengono piano
piano il cervello: mio padre, ricordo,
ha sempre usato la moka di alluminio, il caffè è molto più buono, diceva, era
un suo piccolo rito la mattina, appena sveglio, e poi anche durante il giorno
se ne faceva di caffè. La quantità di alluminio assorbita può avere provocato
l’Alzheimer? Oppure una cosa di largo consumo, che tanti e tanti hanno
consumato, e ora il dilagare di questa malattia si manifesta come conseguenza
di quel prodotto. Non si sa.
So
solo che la nostra vita è cambiata. So che mia moglie mal tollera la situazione
di mio padre, dice che peggiorerà sempre di più, che dovrebbe vivere in una
struttura adeguata. Un giorno sono andato in una di quelle strutture, sembrano
asili per bambini, pareti dipinte di azzurro, tante attività ricreative, letti
con le sponde, un senso di essere in un altro mondo, in una città dell’anima
che rassomiglia a un paesaggio lunare, in cui si augura di non finire, di
morire prima, molto prima.
Mia
moglie non ha una particolare empatia verso il suocero. Ci fu qualche episodio,
qualche battibecco, all’inizio del nostro matrimonio, e lei se l’è legata al
dito. Veramente mia moglie è una che esagera, e già frequenta poco i suoi. E
mio padre, che dopo la morte di mia madre vive con noi, non le è proprio
simpatico.
Lo
vedo spegnersi ogni giorno, a diventare sempre meno gestibile, sta scomparendo
l’uomo che era, e ne soffro. Devo molto a mio padre. Mi ha insegnato ad andare
in bicicletta, a pescare, a giocare a scacchi, mi portava anche a qualche
comizio perché mi facessi una mia idea politica, mi veniva a vedere in tante
mie partite di calcio. Un padre buono, mai severo, mai ha alzato la voce, mai
mi ha punito. La mamma era più severa, ma papà mi proteggeva sempre.
Quando
ho saputo della sua diagnosi, le gambe non mi reggevano, ho pianto due giorni.
La madre di un mio amico aveva l’Alzheimer, è una cosa tremenda anche per chi
le sta vicino, è una malattia che sfianca, sfibra chi assiste, si resta
impotenti, privi di energia alla fine della giornata e il tempo porta un
peggioramento, si diventa avviliti, frustrati, si soffre, si soffre.
Soffro
per mio padre, e devo staccarmi. L’amore per lui, per il padre buono che è
stato, sta diventando anche una privazione delle mie forze, il pensare a questo
destino mi fa rabbia, mi annienta certi giorni.
Mia
madre diceva che fin da piccolo mi prendevo troppo a cuore le cose. Che
soffrivo per un uccellino morto, trovato intirizzito sul balcone.
Quell’uccellino sembra ora mio padre, indifeso di fronte al freddo, alla fame, all’inverno,
al suo inverno.
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