La nuova condanna
dell’Italia per i fatti del G8 nel 2001: i ritardi nell’introduzione del reato
di tortura e non solo. Quel retaggio culturale di scarsa tutela dei diritti
di Gianantonio Tassinari
Una notizia dovrebbe
urtare profondamente chiunque possiede un minimo di sensibilità per il rispetto
dei diritti della persona.
La Corte Europea di
Strasburgo ha condannato la Repubblica italiana per la seconda volta in
relazione ai fatti occorsi nel luglio del 2001 alla scuola “Diaz” di Genova in
conseguenza delle manifestazioni che stavano tenendosi in quella città per
protestare contro il forum G8 in corso di svolgimento.
I giudici sono
intervenuti a seguito di una ulteriore richiesta rivolta da una delle vittime
di quelle assurde violenze, sia in relazione agli atti di tortura compiuti
dalle forze dell’ordine, sia perché l’Italia non avrebbe punito in modo
adeguato i responsabili di quei misfatti.
A prescindere dal
merito dei procedimenti penali che si sono svolti in Italia, la sensazione che si
prova è che non si sia fatta luce sufficiente sulle responsabilità a monte
della commissione di quei reati, né che siano stati individuati tutti il
colpevoli, né infine che coloro che sono stati condannati abbiano avuto un
trattamento sanzionatorio commisurato alla effettiva gravità di quanto hanno
perpetrato ai danni di persone inermi.
Lo sconcerto, anzi
lo sgomento, o forse sarebbe meglio dire la profondissima indignazione mista a
dolore che il rivangare quella pagina vergognosa di storia patria provoca, deve
però lasciare il posto a più lucide considerazioni. A queste ultime non possono
che abbinarsi degli interrogativi.
È vero che le
responsabilità sono sempre individuali, nel senso che non può essere ritenuta colpevole
la società nel suo insieme per singoli fatti di rilevanza penale. Tuttavia, non
può certo sfuggire che in questi ultimi anni si sono ripetute in modo
preoccupante delle violazioni dei diritti della persona - primi tra tutti il
diritto alla libera manifestazione delle proprie opinioni, quello alla salute e
quello all’incolumità fisica e psichica -, da parte delle forze dell’ordine o
da incaricati di un pubblico servizio (non si possono dimenticare casi come
quello di Cucchi e Aldrovandi, solo per citarne i più noti).
Allora questo stato
di cose lascia pensare che vi sia un sentire sociale più o meno consapevole, in
determinati ambienti e tra persone che ricoprono funzioni o ruoli di tutela dei
cittadini, secondo cui una “bella lezione” vigorosa e concreta è quel che ci
vuole per chi turba un certo assetto dell’ordine pubblico.
È difficile dire
quanto questo perverso sentire possa dirsi diffuso, ma molte cose lasciano
supporre l’esistenza di un fattore culturale deteriore perché contrastante con
il rispetto della dignità dell’uomo e delle sue prerogative. Esigenza che, a
livello internazionale, ha portato all’approvazione di norme improntate ai più
elevati principi morali e giuridici.
Cosicché sembra
amaro dovere constatare come nel paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria siano
molto pochi quanti conoscono la sua profonda lezione di civiltà.
E allora al
cittadino comune viene da domandarsi perché mai in Italia non si sia in grado
di approvare sollecitamente un disegno di legge come quello che vuole introdurre
nell’ordinamento il reato di tortura che, a livello internazionale, è stato da
lungo tempo individuato e ben delineato come un qualcosa che lede profondamente
la dignità umana.
E viene pure da
chiedersi se, in Italia, le istituzioni non siano stanche di subire condanne e
censure a livello internazionale per non volere adeguare la propria
legislazione ai più moderni criteri di tutela del cittadino e delle libertà
individuali e collettive.
L’uso della
classica regola dei “due pesi e due misure” sembra manifestato dalle
istituzioni italiane che hanno sentito di rivolgere censure (giustissime in
linea di principio e di fatto) all’Egitto per quanto accaduto in relazione al
caso Regeni (non ancora risolto e la cui soluzione sembra di là da venire),
ovvero di sollevare obiezioni (del tutto correttamente) al giro di vite contro
le libertà individuali in Turchia quando però, dall’altro lato, devono fare i
conti con colpose inerzie quotidiane come quella relativa alla mancata
introduzione del reato di tortura.
Ciò, beninteso, per
non parlare dell’ennesima tirata d’orecchi che la Corte di Strasburgo ha
riservato allo Stato italiano per la violazione della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo anche in relazione al caso del rapimento dell’imam Abu Omar e
del deprecabile comportamento tenuto da alcuni organi istituzionali italiani,
cui ha fatto seguito, a mo’ di coronamento di quanto accaduto, una inspiegabile
grazia presidenziale concessa ai tre agenti americani, che ha sancito anche di
fatto l’impunità dei responsabili.
Che brutte notizie per
un Paese che forse non meriterebbe di essere richiamato, così di frequente, a
riflettere sul rispetto dei più elementari canoni di civiltà.
Nessun commento:
Posta un commento