Le
etichette non sempre sono appropriate per comprendere la realtà.
A partire da un vecchio signore: Georg Wilhelm Friedrich Hegel
di Paolo Brondi
Troppi interpreti hanno elevato Hegel ora a filosofo
della restaurazione ora a filosofo della rivoluzione. Queste immagini di un
Hegel spostato a destra o tutto cacciato a sinistra sono equivoche,
generalizzanti e generiche.
Si tratta per esempio di deformazioni ideologizzate
quelle che fanno di Hegel il teorico dello Stato borghese. In realtà, la
concezione dello Stato borghese, sostenuta dal liberalismo classico in poi,
s'identifica nell'idea dello Stato minimo, cioè uno Stato che dovrebbe
intervenire sempre meno nel meccanismo della società civile, all'insegna del "laisser
faire, laisser passer".
Al contrario per l'Hegel dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817) e, in
particolare, dei Lineamenti di filosofia
del diritto (1821), lo Stato deve essere valorizzarlo al massimo, fino a
divenire protagonista della storia universale. Quest'intensa sublimazione dello
Stato ha fatto di Hegel un avversario durissimo di ogni organismo politico
debole, disorganizzato, disgregato, abbandonato all'arbitrio delle opposte rivalità
dei singoli e dei gruppi.
Parrebbe che l'accanimento con cui egli combatte ogni
spettro di anarchia per sostenere con forza l'unità e l'ordine dello stato lo
renda precursore di uno stato autoritario o fascista. E' vero invece che la
razionalità dello stato s'identifica per Hegel nella supremazia della legge e
non nella torbida prepotenza di chi si è impadronito del potere, spesso con modi
illiberali e antidemocratici.
Egli credeva che l'obiettivo fondamentale debba essere
quello di riunire gli sparsi frammenti in una totalità organica, appunto
l'unità dello Stato, contro tutti gli spettri della crisi e della decadenza
che, purtroppo, ancora oggi, a centottantasei anni dalla sua scomparsa, dentro
e fuori i confini dell'Europa, e in questa nostra Italia, non cessano di
manifestarsi.
Articolo davvero molto interessante, complimenti!
RispondiEliminaL'Anarcociclismo è una tattica di guerriglia culturale che mira a riappropriarsi degli spazi urbani, detournandoli dal loro significato originario di puro luogo di transito e/o consumo-produzione verso nuove funzioni tese a creare panico o sconcerto nel passante. Ogni pezzo della città non è niente in se, ma ha solo una funzione per se, quella che gli viene attribuita dalle autorità. Non vengono concessi i tempi ed i mezzi per interrogarsi sulle funzioni di uno spazio pubblico perché questo è proprio il punto di rottura tra una pretesa oggettività di sistema e le potenzialità insurrezionali delle soggettività di chi negli spazi vive e transita tutti i giorni. In città tutti tirano dritto velocemente perché a nessuno piace vedere in che schifo gli tocca vivere, e soprattutto perché poi dovrebbe interrogarsi sui motivi che creano quello schifo.
RispondiEliminaQuello che l'Anarcociclismo propone è di portare la discussione fuori, nelle strade.
Trasformare ogni giorno, ogni notte, gli angoli e i crocevia delle città in giganteschi media.
Catia Bianchi (una stenotipista di tribunale, fino a stamattina Anonima stenotipista, ora mai più!)