Un frantoio di giorno, poi i panni da partigiano,
la storia di Pino sulle Apuane
di
Paolo Brondi
Quando il tempo è sereno, Pino si siede vicino alla porta
del capanno in spiaggia. La sua figura è un po’ patetica, un po’ commovente:
con i capelli ove il bianco fa da padrone sul nero; rughe in fronte e sulle
guance così fitte che somigliano alle acque increspate dal vento o ad un
brivido non esauritosi nel tempo; gli
occhi perduti in affollati e vorticosi pensieri.
I ricordi di quando vestiva i panni di partigiano, dalla primavera del 1943 all’aprile del 1945, operando al Pasquilio, tra il Carchio e l’Altissimo. Rispettava gli ordini, ma ancora più si lasciava guidare dall’astuzia e dal cuore, gravido di rabbia e di pena, lui che allora aveva 34 anni, per la morte di tanti giovani, di appena 20 anni, in specie, nel paese di Forno, dove le forze tedesche e alcuni reparti della X Mas, rastrellata tutta la gente, fucilarono settanta uomini e ragazzi sul greto del fiume.
I ricordi di quando vestiva i panni di partigiano, dalla primavera del 1943 all’aprile del 1945, operando al Pasquilio, tra il Carchio e l’Altissimo. Rispettava gli ordini, ma ancora più si lasciava guidare dall’astuzia e dal cuore, gravido di rabbia e di pena, lui che allora aveva 34 anni, per la morte di tanti giovani, di appena 20 anni, in specie, nel paese di Forno, dove le forze tedesche e alcuni reparti della X Mas, rastrellata tutta la gente, fucilarono settanta uomini e ragazzi sul greto del fiume.
Durante le ore del giorno, percorreva le strade del suo
paese nativo, Montignoso, recando a casa dei suoi clienti l’olio che produceva
copioso, curando il frantoio del suocero che, ormai vecchio, aveva affiato a
lui il compito di mantenere viva l’impresa, e nessuno sospettava quel che
faceva di notte. La sede era nelle immediate vicinanze del centro delle Capanne
e Pino intuiva che potevano accadergli cose singolari. Infatti, i tedeschi, che
avevano occupato il paese, da tempo avevano preso di mira il frantoio e un
giorno ecco la svolta: si presentarono nella piazzola antistante, tutti
impettiti, con mitra e un cane, pastore tedesco, intimando a Pino, che se stava
quasi immobile a guardare i presenti, non limitandosi a dar loro una occhiata
fuggitiva a consegnare le chiavi.
Pino esitò a rispondere. Allora i tedeschi aizzarono il cane
che, rizzando le orecchie e ringhiando, si avvicinò a Pino e gli posò le zampe
sulle spalle: Pino aveva la coscienza di vivere un momento chiave e appuntò lo
sguardo sugli occhi del cane mormorando piano “buono, buono, sei bello” e,
senza timore, accarezzandogli la testa. Il cane sembrava aver pienamente
compreso e, con immediato mutamento, si ritirò in disparte, con grande stupore
dei tedeschi. Costoro mutarono l’ordine: imposero a Pino di presentarsi al
comando, al Prato di Montignoso, quasi ogni giorno per firmare un libretto di
autorizzazione alla produzione dell’olio e di consegna di una congrua parte di esso al comando stesso
Ora Pino non vedeva
l’ora che venisse il momento in cui si sarebbe liberato dell’invadenza nemica.
Perciò, prima di tutto, doveva studiare le condizioni del suo permanere sicuro
in paese. Giocando d’astuzia cercò e trovò all’interno del comando tedesco un
amico: il cuoco, persona non prepotente
né boriosa, ma cordiale e cameratesco. Portandogli in dono una bottiglia di
vino rosso toscano, e scambiando con lui un bicchiere d’assaggio, suscitò simpatia
e le cose, da quel momento, si collocarono, senza il minimo sforzo, al posto
giusto. Fu così che il riserbo dei paesani, e la simpatia del cuoco lo
convinsero a rafforzare la partecipazione
alla lotta partigiana. Al tramonto,
giunto al Cerreto, dove aveva una capanna, si toglieva l’abito da lavoro e
indossava i panni del partigiano, assumendo il nome di battaglia “Raul”.
Gli abiti variavano a seconda della stagione, ma sempre con
scarponi adatti al suolo montano, maglie pesanti per l’inverno, giaccone
foderato di pelliccia, pantaloni di fustagno e berretto di pelo, con bavero e copri-orecchi che nascondevano in
parte il viso. Cammina, cammina, a volte doveva superare ammassi di pietre,
guidando gli altri: civili, ex prigionieri, politici, per consentire loro il
passaggio, oltre l’Altissimo, in vista del congiungimento con le forze alleate.
A volte, improvvisamente, trasaliva per
nascondersi, insieme ai suoi protetti, avvertendo, pur lontana, la presenza dei
tedeschi in marcia. Il nascondimento era d’obbligo poiché Pino rispettava il
divieto di attaccare il nemico per evitare rappresaglie: lo spargimento di
sangue doveva essere assolutamente limitato.
Si rasserenava appena scorgeva il viso nero del sergente
americano, di cui non rammentava più il nome, ma il cameratismo e la dolcezza
sì, mentre lo salutava, sulle balze dell’altissimo, e accoglieva sotto la sua
protezione i fuggiaschi. Quando il tempo era sereno e giungeva al Pasquilio nell’ora del tramonto, godeva per il magnifico
spettacolo dell’ombra del Carchio che si estendeva lunga e copiosa verso la
valle. Nell’inverno, si calava il berretto oltre gli orecchi e sul collo,
si copriva il viso con la maglia di
lana, ma le raffiche di vento rendevano più crudo il freddo e allora un poco si
disperava: sfiduciato si chiedeva se dovesse abbandonare l’impresa, ma
subito si rincuorava e decideva di proseguire nella lotta.
Oltre ad aiutare i fuggiaschi, Pino sentiva anche l’obbligo
di impedire che i tedeschi realizzassero sulle Apuane le fortificazioni e
che nella ritirata tedesca venissero distrutte centrali elettriche, ponti e
acquedotti. Nel tornare al paese, nelle prime ore del mattino, ricco di
orgoglio per la bontà del suo operato in montagna, non provava alcun timore nel
passare di fronte alla postazione tedesca: con grande stupore dei tedeschi di
guardia, il cane gli si avvicinava scodinzolando la coda e alzandosi con le
zampe per abbracciarlo. Poi si affacciava il cuoco e con grande gioia lo
salutava. Il segreto era che Pino, con
astuzia, si era fatto amico di lui, padrone dell’animale, offrendogli, di tanto
in tanto una bottiglia di buon rosso toscano. Il 5 aprile 1945, dopo tre scontri vittoriosi,
tutta la provincia apuana fu liberata. Anche Pino aveva contribuito a
quell’esito.
Ma ora, non ha più voglia di stare fuori, i ricordi si fanno
più vaghi; lancia uno sguardo triste alle onde chiacchierine, poi al cielo, là
dove pare una tavolozza di colori e poi, lentamente, rientra nel capanno:
dentro c’è tutto. Pino, senza nemmeno guardare, sente la presenza di ogni cosa.
Si siede sulla sua vecchia poltrona. Il turbamento di prima e il conforto di
adesso gli fanno nascere una grande malinconia, ma anche un timido, ultimo, sorriso
di pace.
Questa bellissima pagina di storia mi ha commosso fino alle lacrime perché, questa volta, è storia! Quella vera, reale, sentita dalle voci di parenti e familiari, una storia studiata poco sui libri, molto vissuta perché è proprio qui da noi che ciò è successo. E non potrà mai essere cancellato. Raoul (o Pino) so chi era, vagamente lo ricordo. Sempre sorridente e festoso. La mia nonna lo conosceva molto bene e mi aveva sempre detto che era uomo buono e generoso, degno di grande rispetto come Lei esattamente lo descrive. Nel mio piccolo ho sempre insegnato ai miei alunni il rispetto e l'onore che abbiamo ad essere figli e nipoti o anche lontani parenti di queste Persone.
RispondiEliminaCristina Podestà