lunedì 8 ottobre 2018

Reddito di cittadinanza, l'antico alla prova di oggi

L’idea di garantire una sicurezza economica minima ai cittadini è risalente nel tempo,  le conclusioni cui è giunta fin qui l'esperienza storica  sarebbe oggi molto utile

di Paolo Brondi

Chissà se i fautori del reddito di cittadinanza abbiano conoscenza che l’idea di garantire ai cittadini il diritto a un minimo di sicurezza economica con mezzi pubblici era già diffusa nel settecento. Compare in Montesquieu: ”Lo Stato deve a tutti i cittadini il sostentamento assicurato, il nutrimento…” (L’Esprit des lois, XXIII, 29, 1748).
Ritorna costante nel filone comunistico-egualitario: in Babeuf, Buonarroti, Fourier, Saint Simon, fino al motto marxiano del “ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Si deve alla rivoluzione francese l’aver sottolineato che un’assistenza generalizzata non deve avere la natura dell’elemosina, ma deve essere un diritto. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, adottata dai giacobini il 24 giugno 1973 , precisa che “i soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di sussistenza (art.21).
In Inghilterra tali vedute trovano una deteriore applicazione, introducendo lo Speenhamland system (1795) che modifica la poor law, fino a garantire, attraverso un’imposizione locale esercitata dalle parrocchie, un reddito minimo indicizzato al costo della farina, ritenuto un efficace rimedio contro la rivoluzione. Tale sistema verrà accusato di fungere da disincentivo al lavoro e nel 1834, a seguito della riforma benthamiana della poor law, l’assistenza verrà erogata solo a chi accetti di lavorare nelle works-houses!
Per quasi tutti i pensatori politici dell’età borghese, requisito della cittadinanza attiva doveva essere l’indipendenza personale. Diveniva allora necessario che compito dello Stato fosse prima di tutto di dare a ciascuno il suo, immetterlo nella sua proprietà e poi proteggervelo. Nello stato commerciale chiuso (J. Gottlieb Fichte, Lo stato commerciale chiuso, 1800) nessuno può arricchirsi in modo particolare, ma nessuno neppure impoverire; nessuno può essere sfruttato, nessuno ha bisogno di sfruttare gli altri, se pure lo volesse non troverebbe da sfruttare nessuno.
Tali illuminate vedute dell’idealismo di Fichte, predittive di un’organizzazione economica che sarà attuata nel XX secolo, in forma di pianificazione sovietica, trovano un radicale arresto per la dialettica Hegeliana: “Se si pensa che in generale si aiuta il povero, allora o non si ha più alcun povero, o nient’altro che poveri; e non rimanendo nessuno che avrebbe la possibilità di aiutare, allora, in entrambi i casi, l’aiuto verrebbe meno” (Hegel, Scritti di filosofia del diritto, 1802, 1803).
E’ qui sottesa la tesi dei pensatori borghesi che vorranno fondare la società civile sul mercato e sull’armonia degli interessi e quindi sulla necessità che si mantenga lo spettro della fame, quale precondizione istituzionale del mercato capitalistico. Intensa e costante, fino ai nostri giorni, è la riflessione intorno al tema “stato e minimo nazionale”, e luci e ombra, si sono alternate, nell’arricchire o impoverire la democrazia: chissà di quale luce oggi sperimenteremo.

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