(Angelo Perrone) Il 19 luglio segna una ferita profonda nella memoria collettiva italiana. Trentatré anni fa, in via D'Amelio, la violenza mafiosa spezzò le vite del giudice Paolo Borsellino e dei suoi “custodi”: Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano.
Un eccidio che non fu solo un attacco allo Stato, ma un colpo al cuore della giustizia, della legalità, della speranza stessa.
Oggi, nel ricordo commosso di quel sacrificio, ci ritroviamo a riflettere sul significato di quelle vite donate. Borsellino e la sua scorta incarnarono un ideale di servizio pubblico puro, disinteressato, animato da una profonda etica e da un coraggio indomito.
La loro dedizione alla ricerca della verità e all'affermazione del diritto risuona ancora oggi come un monito, un faro in tempi complessi.
La ferita di via D'Amelio resta aperta, alimentata dalla ricerca di una verità ancora incompiuta, dalla consapevolezza di depistaggi che hanno offuscato il cammino della giustizia. In un'epoca in cui il dialogo sulla giustizia è spesso inquinato da strumentalizzazioni, da una diffidenza crescente verso le istituzioni e da una logica di convenienza, il ricordo di Borsellino e dei suoi agenti si eleva al di sopra delle contingenze.
È un richiamo alla nobiltà dell'impegno civile, alla necessità di una giustizia equa, trasparente e incondizionata. Il loro sacrificio ci invita a superare le divisioni, a ricostruire un tessuto di fiducia, a perseguire la verità con la stessa ostinazione e integrità che animò Paolo Borsellino. La loro memoria non è un mero rito, ma un imperativo morale a non cedere mai, a custodire e onorare i valori più alti della nostra Repubblica.
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