Gli
“inglesismi” nella lingua italiana: cause e rimedi. Ci abbagliano i “pezzetti
di vetro luccicanti”? Non dimentichiamo che l’inglese “è
anche privo delle consonanti raddoppiate”
di Gianantonio Tassinari
Ogni giorno
sentiamo molte persone esprimersi con inglesismi. Okay, week-end, e-mail, on line, mass media, job act, talk show, bail in, start up. Dagli studenti che
chiacchierano amabilmente all’uscita di scuola ai giornalisti che infarciscono
i propri servizi o infiorettano le proprie apparizioni con termini mutuati dal
linguaggio anglosassone.
Un fenomeno dai
tratti subdoli perché, grazie ai mezzi di comunicazione sempre più invasivi, e
alla veicolazione da parte delle giovani
generazioni, porta ad utilizzare forme linguistiche esotiche, che nulla hanno a
che vedere con il nostro retaggio culturale, totalmente estranee all’identità
nazionale.
Abitudine che
dovrebbe far riflettere l’opinione pubblica per le problematiche importanti che
ne derivano.
Infatti, l’uso
sempre più reiterato di vocaboli o espressioni estranei alla lingua – a
quell’«idioma gentil sonante e puro», di cui parla Vittorio Alfieri, il quale
già allora raccontava della propria «sfrancesizzazione», la sua reazione alle
mode culturali deteriori dell’epoca - rischia di far perdere l’intimo contatto
con l’idioma che si dovrebbe parlare senza contaminazioni nelle relazioni
quotidiane con persone dello stesso Paese. Pure nel Piemonte di fine Settecento
e inizio Ottocento persisteva l’atavico fascino di usi lessicali provenienti
d’Oltralpe. Un gusto improntato a evidente esterofilia della quale le nostre
contrade hanno da sempre fatto bella mostra.
Ma senza voler
risalire così indietro, né pretendere di scomodare personaggi come Alfieri o
Manzoni, ci si dovrebbe interrogare sulle motivazioni più profonde e probabili
che inducono gli italiani a fare grande uso di vocaboli e forme lessicali
stranieri provenienti da oltre oceano o da oltre Manica.
Verrebbe allora da
chiedersi se sia stata la sconfitta da parte delle forze alleate nell’ultimo
conflitto mondiale, seguito da una colonizzazione politico-militare-economica,
che ha visto affermarsi il piano Marshall
e l’adesione alla N.A.T.O., a
determinare la convergenza dei gusti della popolazione italiana, da poco tempo
liberata dalla dittatura fascista e dall’occupazione militare nazista, verso
stereotipi culturali propri del mondo anglo-americano che i nuovi occupanti
della penisola introducevano (dal boogie-woogie
alla chewing gum, dalla Coca-Cola alla Harley Davidson).
Chi non ricorda
Alberto Sordi, con cappello da poliziotto americano calato di traverso sulla
fronte, cavalcare questo potente bolide motociclistico nel film Un americano a Roma e masticare in
continuazione frasi in inglese maccheronico?
Ma se questa fosse
una possibile chiave interpretativa del fenomeno, connotata magari da un
qualche fondamento di verità, dovremmo constatare che nella storia, pur lontana
oltre due millenni, vi sono stati esiti opposti. Quando la repubblica romana,
con le sue legioni, occupò definitivamente l’antica Grecia nel primo secolo
avanti Cristo, seguì un lungo processo di conformazione del mondo latino ai
modelli culturali propri del paese occupato, che di fatto vinse la battaglia
più importante, quella culturale.
Così non è stato
invece dopo la seconda guerra mondiale, il cui epilogo ha visto il popolo
italiano essere assoggettato più volte: non solo dai punti di vista politico,
militare, economico, ma, ciò che è peggio, anche da quello culturale.
Verrebbe da pensare
che la ben nota tendenza anglosassone a risparmiare e monetizzare tutto, non
solo il denaro, ma anche il tempo, ci abbia contagiato come un pericoloso morbo
del quale neppure ci rendiamo conto.
Addirittura la
sudditanza culturale rispetto al mondo a stelle e strisce ci ha portato persino
a utilizzare nomi o espressioni che derivano da altre tradizioni giuridiche.
Sarà capitato a molti dover notare come giornalisti della televisione e della
carta stampata, intervistando un presidente di giunta regionale lo qualifichino
immancabilmente «governatore» della tale o tal’altra regione. E’ evidente
l’influenza della figura del «governatore» che il sistema americano pone a capo
del singolo stato membro dell’unione.
Senza contare le
volte in cui si sente ripetere la parola premier,
per indicare il nostro presidente del consiglio dei ministri.
Poi, nessuno ha
notato come persone della più varia estrazione sociale e delle più diverse
occupazioni, parlando in pubblico, facciano uso del verbo «realizzare» invece
dell’appropriato «accorgersi» o «rendersi conto» di qualcosa? Non viene forse
immediatamente da pensare alla contaminazione con il verbo anglosassone «to realize» che, se fosse usato
nell’accezione propria del contesto che ci viene proposto, non significherebbe
affatto «realizzare», ma appunto «accorgersi» o «rendersi conto» di qualcosa?
Perché dobbiamo
continuare a ripetere okay e non ci
passa minimamente per la testa di iniziare a usare un più italico «è così»
oppure semplicemente «sì» o, se ci si vuole dilungare un po’ di più, a dire «va
bene»? Perché seguitare a dire buon week-end
quando possiamo augurare a un nostro amico un più tradizionale «buon fine
settimana»? Perché parlare sempre di messaggi inviati via e-mail quando possiamo trasmetterli per «posta elettronica»? Oppure
perché parlare di un colloquio on line
quando possiamo usare un più autoctono colloquio telefonico? Perché il politico
o il giornalista di turno deve continuare a magnificare la panacea di questi
ultimi tempi, il famoso job act,
quando potrebbe limitarsi a tessere le lodi di una normativa italiana
indicandola con il suo nome proprio: legge sul lavoro, ovvero disciplina
organica dei contratti di lavoro?
Esterofilia o
sudditanza culturale? Oppure entrambe o nessuna delle due? Difficile sciogliere
il dilemma. Ahimè! Altre domande infatti sorgono. E se fosse la voglia di
superare il più gretto provincialismo, che oramai da troppo tempo ci distingue,
quella che ci spinge a eccedere in citazioni linguistiche aliene? E se la
convinzione di sentirci più colti o alla moda perché parliamo con termini
stranieri non sempre comprensibili a tutti nascondesse in realtà complessi
psico-sociologici che tardano a morire e a cedere il passo alla consapevolezza
di un’identità nazionale spesso più teorica che effettiva? E se quello che ci
manca fosse proprio un intimo sentimento comune di patria mai nato nei nostri
cuori?
Nessuno può negare
l’importanza della conoscenza delle lingue straniere, che servono per aprirsi
oltre confini ma che non possono certamente farci abdicare alla nostra identità
linguistica. Però c’è una grande tristezza a constatare che in ciò vi è una
mortificazione della nostra intima essenza culturale: la lingua, uno dei più
autentici e forti collanti, che ha creato un legame tra gli italiani. Un tesoro
di pietre preziose di cui non ci accorgiamo, come la bellezza, la ricercatezza,
la singolarità, preferendo piuttosto invece andare alla ricerca di pezzetti di
vetro dai colori luccicanti ma privi di effettivo valore.
Una lingua così
bella come quella dei nostri padri, ricca di sfumature e di significati, dolce,
armonica, musicale, povera di suoni duri e gutturali, madre di capolavori
letterari noti in tutto il mondo, perché ha dovuto in gran parte snaturarsi e
cedere sotto i colpi di un idioma più povero del nostro? Si è mai notato che
l’inglese è denso di suoni duri, abbondante di gruppi consonantici impregnati
di sibilanti, gutturali e liquide, popolato delle più varie onomatopee,
caratterizzato da forme verbali meno articolate delle nostre in cui la fanno da
padrone i troppi verbi preposizionali e che è pure privo del suono delle
consonanti raddoppiate?
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